editoriale" "

L’Europa in disparte” “

Alla conferenza di Bonn sul futuro dell’Afghanistan, l’Unione europea non riesce a giocare un ruolo di primo piano” “” “

L’insolita guerra o operazione militare in Afghanistan, condotta principalmente dagli Stati Uniti che hanno in vario modo sostenuto l’azione di terra dell’Alleanza del Nord contro i talebani, pare (questo verbo è d’obbligo) avviata verso la conclusione con la Conferenza di Bonn in atto. Si tratta di un evento speciale in un momento particolarmente delicato in quanto – data appunto le peculiarità di questa “guerra” dichiarata contro il terrorismo – non è possibile oggi affermare che la Conferenza realmente porrà fine al conflitto afgano, del quale taluni temono, anzi, repentini e pericolosi rigurgiti.
In effetti, nella deprecata ipotesi in cui tale conflitto non si concluda velocemente ed in cui gli attuali autori della Conferenza di Bonn non siano realmente rappresentativi delle varie fazioni presenti sul territorio afghano si riproporrebbe il quesito, più volte prospettato in Bosnia come in Kosovo o in Medio Oriente, concernente l’individuazione di chi realmente detiene il controllo della situazione: ossia di chi è in grado di trasformare la parola data o la firma apposta sul documento in qualcosa di reale che, nel caso specifico, consisterebbe essenzialmente nella simultanea sospensione degli atti terroristici e della azione di risposta ad essi. Ma, anche senza entrare nel merito della composizione delle varie delegazioni, limitandosi ad approvare la presenza di alcune donne (anche nel caso in cui essa fosse in ipotesi meramente simbolica), vi sono almeno due punti destinati ad attirare l’attenzione. Essi riguardano rispettivamente: i risultati attesi da questa conferenza internazionale; il ruolo che l’Europa potrà giocare in Afghanistan. E’ chiaro che il primo punto si ricollega alle premesse generali, nel senso che intanto è possibile attendersi dei risultati dalla Conferenza di Bonn in quanto coloro che vi partecipano detengono effettivamente il potere sia pure ciascuno nei limiti delle proprie competenze. Ciò posto e dato che la Conferenza di Bonn si svolge sotto l’egida delle Nazioni Unite, alla presenza e con la mediazione dell’inviato speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan, l’algerino Lakhdar Brahimi, è probabile che vengano valutate alcune proposte le quali possono riguardare: la creazione di un governo provvisorio verso il quale e nel quale dovrebbero convergere le forze antitalebane; l’istituzione di un regime assimilabile a quello dell’amministrazione fiduciaria, già sperimentato in Bosnia ed in Kosovo, finalizzato a facilitare la creazione di uno Stato democratico.
Forse i tempi non sono ancora maturi perché le varie fazioni siano in grado di accordarsi su chi e come deve governare anche provvisoriamente sul territorio afgano trasformandolo in uno Stato democratico. Certo il livello di povertà in Afghanistan, accompagnato dalla scarsa preparazione culturale della maggioranza della popolazione, è destinato a porre in discussione la tesi per la quale lo sviluppo di un popolo risulta essere consequenziale alla instaurazione della democrazia, laddove risulta evidente che democrazia e sviluppo non possono in casi come questi che procedere intersecandosi. Ciò sta a significare che, se si vuole erodere il terrorismo distaccandolo dalla povertà e dall’integralismo anche solo politico, si dovrà molto “lavorare” per portare quest’area, peraltro ricca di materie prime, a condizioni di vita e di democrazia compatibili con gli standard usuali.
Resta, infine, da considerare il ruolo dell’Europa e da domandarsi se, dietro all’offerta di semplice “ospitalità” da parte tedesca, non si celi l’intenzione della Germania di proporsi se non come artefice, almeno come secondo mediatore (dopo l’Onu) della pace, allo scopo di poter vantare in futuro titoli preferenziali per posizioni di prestigio (in sede di un regime analogo all’amministrazione fiduciaria) o nel campo della strutturazione economica dell’Afghanistan. E’ possibile che ciò si verifichi anche perché, se sul piano militare gli Stati Uniti hanno riconosciuto uno scarso ruolo anche a quegli Stati europei con i quali sembravano avere instaurato rapporti preferenziali, rimproverando tacitamente all’Europa di non essere stata in grado di apportare un sistema di difesa comune, sul piano diplomatico la stessa Unione europea risulta deficitaria con riferimento ad una comune politica estera. D’altra parte la presenza del Primo ministro belga, attuale presidente di turno del Consiglio dell’Unione, appare un po’ defilata e comunque non sufficientemente significativa per dare all’Europa il ruolo da questa auspicato nella soluzione del conflitto.