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L’informazione, i media e la professione di giornalista si trovano in un momento di trasformazione rivoluzionaria. La guerra in Afghanistan è una prova evidente di questa rivoluzione, ma è solo la punta dell’iceberg. I mezzi moderni, l’elettronica, i computer, i modi di trasmettere i servizi hanno infatti cambiato radicalmente il lavoro giornalistico e non necessariamente in modo positivo. L’inviato di una volta aveva molto più tempo per informarsi sul posto. Generalmente trovava delle persone che erano disposte a parlare, poteva confrontare delle risposte diverse, aveva il tempo materiale di analizzare, la possibilità di muoversi e, soprattutto, aveva tempo sufficiente per scrivere.
Oggi, invece, le redazioni dei giornali, delle televisioni e delle radio chiedono subito gli articoli e i servizi; magari nel momento stesso nel quale avvengono i fatti. E questo non può che incidere sulla qualità. Il corrispondente di guerra si trova, poi, in una situazione particolare. Spesso guarda ma non vede veramente. O ascolta senza sentire la verità. I portavoce degli eserciti o delle fazioni in guerra di solito vogliono confondere le idee, oscurare i fatti. E, difficilmente, i giornalisti riescono a verificare come si è svolta veramente un’azione di guerra, quante vittime ha fatto. Spesso a Washington o a Londra si riesce a sapere molto di più che sul campo di guerra. Ma anche lì la censura è più viva che mai. Così fare il giornalista in tempo di guerra è un lavoro molto difficile, ma anche pericoloso – come dimostra la tragica morte di molti giornalisti in queste settimane. Solo quest’anno ne sono morti 50. I talebani hanno addirittura offerto un premio di 50mila dollari per ogni giornalista morto. È orrendo, ma anche emblematico.
È largamente riconosciuto che la prima vittima della guerra è la verità. Le vittime sono civili, donne, bambini. Vittima anche il giornalista, perché gli strateghi, i generali, i combattenti cercano di diffondere una loro versione dei fatti. Ne sono esempio i cosiddetti bombardamenti intelligenti che come dicono i governanti – solo in alcuni casi marginali dovrebbero causare morti fra i civili ma i fatti, purtroppo, mostrano il contrario. Per Osama Bin Laden anche i media sono strumenti di guerra. E per i talebani non esistono innocenti. Tutti possono ammazzare tutti nella cosiddetta guerra santa. Quando un reporter scopre un magazzino per armi biologiche o un campo per l’addestramento di Al Quaeda deve essere eliminato.
C’è un altro fatto che impedisce o ostacola una corretta informazione. Per molti reporter e giornali la guerra in Afghanistan è diventata troppo costosa. Prima dell’11 settembre potevano lavorare con un budget abbastanza contenuto. Alloggiavano, per esempio, a Kabul presso l’Hotel Intercontinental mezzo distrutto e con un servizio pessimo ma con prezzi abbordabili. Per l’interprete e l’autista obbligatorio si doveva pagare all’incirca 100 dollari al giorno. L’alleanza del nord era più generosa. Raschid Dostum e Achmed Schah Massud consideravano i giornalisti come ospiti, naturalmente anche nella speranza di poter influenzare le loro corrispondenze in modo positivo. Ma i tempi sono cambiati. Oggi arrivare dal Tagikistan in Afghanistan con un elicottero costa 2300 dollari; da qui, poi, per arrivare a Kabul con un taxi ce ne vogliono altri 1000. Molti reporter devono così rinunciare a rendersi conto di persona della situazione e ripiegare su informazioni di seconda mano. Per esempio, un trio dell’emittente Tv6 di Mosca ha dovuto rinunciare a installarsi a Kabul per i costi troppo alti. Due giornalisti di un’agenzia spagnola sono stati richiamati a Madrid per ragioni finanziarie. Così l’informazione diventa un’esclusiva per pochi giornali ed emittenti. E spesso la televisione ripete per giorni le stesse inquadrature ed immagini senza valore informativo. Ogni guerra è coperta da una nebbia di menzogne e disinformazioni e per i giornalisti diventa sempre più difficile dissipare questa nebbia. Che cosa stia succedendo, che cosa sia successo, che cosa accadrà, non lo sanno neppure coloro che conducono questa guerra. Perché la nebbia inghiotte chi la produce come chi la riceve, ha anche detto un collega italiano. È una constatazione sconsolante che però non impedisce chi prende sul serio la professione di cercare la verità ogni giorno di nuovo.