editoriale" "
"Sono anziani, bambini, adulti e giovani: un popolo che non si stanca di credere nella forza della preghiera per ottenere la pace." (Giovanni Paolo II, Assisi 24 gennaio 2002)” “” “
Nell’immagine suggestiva dei campanili delle diverse chiese cristiane d’Europa, che nella poesia di Clemente Rebora non svettano verso il cielo ma fermano questo in terra, si fanno sempre più nitidi i profili delle sinagoghe, delle moschee e di tutti gli altri luoghi della preghiera.
In primo piano la basilica di San Francesco in Assisi che il 24 gennaio, con i segni della ferita del terremoto ma bella e salda, ha registrato le vibrazioni dell’anima di uomini e popoli di diverse religioni e confessioni cristiane.
La comune invocazione a Dio per la pace si è levata possente anche se la preghiera è sempre nuda, debole e disarmata.
“Pregare – ha detto il Papa – non significa evadere dalla storia e dai problemi che essa presenta. Al contrario è scegliere di affrontare la realtà non da soli ma con la forza che viene dall’Alto, la forza della verità e dell’amore la cui ultima sorgente è in Dio”.
L’Europa era presente, più che mai consapevole della propria vocazione alla pace e della propria particolare responsabilità per costruirla dentro e fuori i suoi confini.
Ancora una volta si è sentita chiamata a riflettere ed a dare significato pieno a quelle sue radici cristiane che il Papa chiede di portare alla sorgente perché non si dissecchino lasciando che l’albero muoia. Parlare di radici cristiane senza riferirsi alla sorgente non è entrare nel cuore del messaggio che Giovanni Paolo II ha voluto comunicare anche ad Assisi. E’ piuttosto fermare il pensiero a mezz’aria e non portarlo a quella meta alta che egli non si stanca di indicare: Dio.
Ad Assisi, per un’Europa che sta vivendo la fatica di ritrovare se stessa, il messaggio dal mondo – rappresentato dai capi di diverse religioni e confessioni cristiane – è stato chiaro ed anticonformista: senza Dio la pace non è possibile.
Il monito del Papa si è fatto esplicito: “Ancora una volta noi, insieme qui riuniti, affermiamo che chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l’ispirazione più autentica e profonda”.
Non sappiamo in quale misura queste parole verranno accolte, se modificheranno l’opinione di chi confonde l’ideologia con la religione, la fede con la cultura. Non sappiamo, di conseguenza, se la tanto declamata identità europea si rafforzerà o meno. Questi giudizi, d’altra parte, non spettano a noi.
“Alla Chiesa – scriveva recentemente Nikolaus Lobkowicz – è stata fatta la promessa che le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa, che non tradirà mai del tutto il Signore, nonostante i passi falsi e gli sviamenti. Non le è promesso di essere vincitrice agli occhi del mondo. E nemmeno le è promesso di riuscire a plasmare per sempre quel continente in cui è cresciuta”.
Tuttavia, aggiunge il filosofo, “se in Europa non ci saranno più cristiani “sufficientemente coraggiosi e dotati di carisma, in grado almeno di concorrere a determinarne il destino, dobbiamo temere che in questo continente gli uomini avranno vita dura” perché la loro umanità verrà gravemente impoverita.
Ma anche gli altri continenti subirebbero la stessa sorte. In questa prospettiva le parole di Assisi hanno un supplemento di significato e richiamano il tema della comunicazione della fede da una generazione all’altra: un passaggio irrinunciabile ed affascinante per la crescita dell’Europa.
Se questa comunicazione non riprende, a partire dal silenzio orante di Assisi, dalla conseguente riscoperta della coscienza e della testimonianza privata e pubblica dei cristiani, i campanili saranno solo per le cartoline illustrate spedite con eurofrancobollo. Il Papa non ci sta a questa conclusione, invita alla speranza: ancor prima dell’incontro di Assisi aveva negli occhi i volti di “anziani, bambini, adulti e giovani: un popolo che non si stanca di credere nella forza della preghiera per ottenere la pace”.