editoriale

” “Sarajevo, dieci anni dopo

” “Il 6 aprile 1992, senza alcun attacco esterno, la Jugoslavia si è ” “lacerata in quella ” “guerra che viene ” “definita "interetnica"” ” ma che forse aveva soprattutto radici ” “economiche e politiche” “


Forse sembrerà banale ricordare che ogni popolo ha le proprie caratteristiche, sebbene ognuno si affretti a precisare che ogni popolo è formato di persone e che ognuno differisce dal proprio simile. Ciò che caratterizza il popolo bosniaco-erzegovino e, in genere, i popoli balcanici è una grande componente di pessimismo e di fatalismo ad un tempo. Fatalismo perché questi popoli ritengono che la storia non sia stata scritta da loro, ma sopra di loro; pessimismo perché considerano questa situazione come ineluttabile. In questa ottica anche il passato diviene presente storico e non risulta depurato dall’oblio, ma anzi è vivo, evidente, immediato. E tra presente e passato è continua la ricerca di collegamenti e di parallelismi… Così in questo periodo durante il quale si celebrano gli avvenimenti che hanno dato inizio allo smembramento della Jugoslavia, taluno ricorda che il 6 aprile è data fatidica per quei popoli: infatti il 6 aprile 1941 la prima Jugoslavia fu attaccata e distrutta, scissa e smembrata, occupata in parte dai tedeschi, in parte dagli italiani. Ed il 6 aprile 1992, senza alcun attacco esterno, la Jugoslavia si è lacerata in quella guerra che viene definita “interetnica” e interreligiosa, ma che forse a quel tempo presentava alle sue radici più che altro motivi economici e politici.
Una guerra che, nella contabilità bellica, risulta essere stata una delle più lunghe, dato che è durata trecentocinquanta giorni. Un conflitto che ha causato milioni di profughi e di sfollati e distruzioni difficilmente riparabili e per il quale si pone tuttora il problema della definizione come “guerra” (che coincide con il conflitto tra Stati, iniziato, condotto e concluso secondo le modalità previste dalle norme di diritto internazionale), un “conflitto” identificabile con una cosiddetta guerra civile o con uno scontro armato a breve o a lungo termine tra enti a carattere non statale. Gli accordi firmati tra il 24 novembre a Parigi e il 14 dicembre 1995 a Dayton dalla Repubblica di Bosnia, dalla Repubblica di Croazia e dalla Repubblica federale della Jugoslavia hanno concluso la vicenda del conflitto che aveva definitivamente stremato la popolazione e ridotto in miseria l’intera area distruggendola. Nel tentativo di ricostruire un tessuto interetnico e interreligioso, gli accordi hanno incluso un allegato contenente la costituzione della Bosnia-Erzegovina, nuovo Stato sorto dalle macerie della guerra. Tale operazione era stata finalizzata a dare vita ad una sorta di Stato tripartito con veloci avvicendamenti ai vertici (normalmente ogni sei mesi) da parte di un’autorità appartenente all’una o all’altra etnia. Tuttavia, a fronte di questa complessa architettura costituzionale, ciò che si è prospettato “sul campo” ha evidenziato le difficoltà di un sistema che presuppone l’esistenza di armonia e di forme di cooperazione inesistenti, che proprio gli accordi di Dayton erano diretti a creare.
Oggi, a dieci anni dallo scoppio del conflitto ed a sei anni dalla fine di esso, il panorama della Bosnia risulta alquanto desolato: la ricostruzione è lenta, l’economia stenta a decollare e tutto procede in subordine rispetto alla presenza delle forze di sicurezza e degli enti internazionali che agiscono nell’area sulla base del “sistema Dayton” e che rappresentano anche l’origine del reddito di molti bosniaci. A ciò si aggiunga che, sotto il profilo della democrazia, lo Stato è in “progresso”, vale a dire in fase evolutiva tendenzialmente positiva, dato l’avvicendarsi di tornate elettorali a livello nazionale e locale con cadenza quasi semestrale… Ma il Consiglio d’Europa e l’Unione europea rappresentano il miraggio di questo popolo che, ormai disincantato, spera che qualche cosa accada fuori della Bosnia e questo valga a trainarlo fuori dal guado. Gli accordi di Dayton, firmati dalle parti in conflitto, erano diretti a responsabilizzare le stesse parti: rispetto ad essi gli Stati più importanti e l’Unione europea agivano da testimoni. Ciò sta a significare che la Bosnia Erzegovina dovrebbe diventare arbitro del suo destino: peccato che su questo gravino già più di un errore commesso dalla comunità internazionale ed il ricordo di un passato di storia che diviene presente e che forse sarebbe opportuno dimenticare per guardare con maggiore fiducia verso un futuro diverso.