FILOSOFIA E VITA
L’ermeneutica e le domande ultime
(da Torino) "L’ermeneutica non è scomparsa con l’arrivo del terzo millennio, e la filosofia si mantiene ancora viva attraverso il problema del senso, che riveste aspetti sempre più inquietanti". Lo ha detto Graziano Ripanti, docente di filosofia teoretica all’Università di Urbino, intervenendo al convegno "Attualità dell’ermeneutica?", a 50 anni dalla pubblicazione di "Verità e metodo" di Hans Georg Gadamer, svoltosi a Torino dal 2 al 4 dicembre, per iniziativa del Centro sudi filosofico-religiosi Luigi Pareyson. Soffermandosi sul rapporto tra Gadamer e "l’ermeneutica della parola", il filosofo ha fatto notare come "è stata più volte proclamata la fine dell’ermeneutica" ma tale previsione è stata smentita dai fatti, visto il "fiorire" anche in Italia di traduzioni di opere di Gadamer e di studi sul suo pensiero. In Gadamer, ha osservato il relatore, "è molto presente sia la parola con la p minuscola, sia la parola con la P maiuscola". Per Gadamer, infatti, "il più grande miracolo del linguaggio è la Parola che si fa carne, e che ciò che si manifesta nel mondo esterno è sempre parola": di qui il rapporto con la teologia. Ad avviso di Gadamer, però, "non è possibile un pensiero totalmente sganciato dal linguaggio: non riesce a comprendere il ‘verbo interiore’ di stampo agostiniano, ma riesce ad intuire che venga a coincidere con la parola della ragione, che è universale, al di là degli aspetti particolari".
Ermeneutica e interculturalità. Nella seconda metà del Novecento, ha fatto notare Maurizio Pagano, dell’Università del Piemonte Orientale, "l’ermeneutica è stata declinata in maniera interculturale", a partire dalla nozione gadameriana di "fusione di orizzonti". Per Gadamer "l’appartenenza deve essere pensata all’interno della propria condizione storica", oltre che nell’orizzonte della linguisticità. Di qui la centralità della categoria del dialogo, e in particolare del "modello domanda-risposta", che "può essere applicato nel contesto del dibattito interculturale". In un’intervista del 2002, intitolata "L’ultimo Dio", Gadamer ha ricordato il relatore si mostrava "molto preoccupato per la situazione contemporanea" e "molto consapevole della dimensione religiosa", tanto da arrivare ad affermare che "il compito attuale della filosofia è preparare un dialogo tra le religioni consapevole della trascendenza". Negli ultimi decenni della sua attività, dunque, Gadamer matura la convinzione che "l’ermeneutica è legata a un compito etico: l’angoscia per i tempi presenti, sostiene il filosofo, mentre da una parte può far temere catastrofi, dall’altra può spingere a interrogarsi sulle domande radicali comuni alle religioni".
Ermeneutica e finitezza. "Molto più importante del principio di non contraddizione, del non contraddirsi l’uno con l’altro, è il parlare con gli altri, assumendosi la responsabilità della parola". Mario Ruggenini, dell’Università "Ca’ Foscari" di Venezia, ha spiegato in questi termini l’essenza del rapporto tra ermeneutica e finitezza, sulla scorta del pensiero di Gadamer ma anche di Paul Ricoeur, che nei frammenti raccolti postumi, dal titolo "Vivo fino alla morte", suggerisce l’idea che "la morte ci fa vivere, perché viviamo finché la morte ce lo consente". Per Ricoeur, "aver da morire significa aver da vivere, e la morte ci stimola fino in fondo ad assumere la responsabilità del vivere. La nascita dell’uomo è la nascita alla responsabilità di sé e degli altri: è l’unità fondamentale della parola con l’esistenza, e dell’esistenza con la parola, che ci fa sentire interpellati nel ‘gioco’ della libertà".
Ermeneutica e verità. Nel 1960, quando è stato pubblicato "Verità e metodo", "l’appello di Gadamer a rivendicare l’essenza di verità nell’arte era molto attuale. Oggi la richiesta della condizione universale del mondo all’ermeneutica è segnata dall’intensificazione della comunicazione: siamo in condizioni di possibile auto-trasparenza ma la moltiplicazione delle forme di comunicazione fa emergere un bisogno di verità con la V maiuscola". È l’analisi di Gianni Vattimo, dell’Università di Torino, secondo il quale oggi "bisogna difendere la concreta esperienza storica delle varie culture contro la pretesa di una verità assoluta intesa come ‘pensiero unico’".
Ermeneutica e trascendenza. "L’interpretazione comporta con sé il problema della trascendenza, come inesauribilità e libertà". Ne è convinto Giuseppe Riconda, dell’Università di Torino, che ha citato la tesi di Luigi Pareyson, secondo il quale "è sul terreno dell’ermeneutica che si pone il problema delle condizioni in cui la trascendenza può essere affermata in maniera sensibile". "Interpretare ha spiegato non è registrare, ma trascendere l’immediatezza del dato: significa cogliere le cose nella loro verità, presente nel processo interpretativo come presenza che lo guida, senza mai sostituirsi ad esso". "Alla base della vita spirituale c’è un’opzione per la verità, che è ciò che ci stimola a parlare e che stimola chi ci ascolta a reagire", ha concluso Riconda: "L’unica maniera in cui la verità è presente nel discorso è come fonte e origine, come presenza muta e silenziosa che guida il processo ermeneutico stesso, che è veramente tale se riconosce che questo processo non può mai essere esaustivo".