CHIESA E ABUSI SESSUALI

Dopo la devastazione

La domanda di perdono e la domanda di avere la forza di perdonare

“Sanare una ferita al cuore della Chiesa e della società”: su questo tema sono intervenute oggi alla seconda giornata del simposio internazionale “Verso la guarigione e il rinnovamento”, in corso all’Università Gregoriana di Roma, Marie Collins, vittima di abusi, e Sheila Hollins, psichiatra e psicoterapeuta, la quale si è occupata del trauma per gli abusi sessuali e nel 2011 ha accompagnato il card. Cormac Murphy-O’Connor nella visita apostolica alla diocesi di Armagh in Irlanda per ascoltare le vittime di abusi sessuali da parte del clero e le loro famiglie, i parrocchiani, i preti, i religiosi. Nella serata di oggi, nel corso di una veglia penitenziale, nella chiesa di Sant’Ignazio, nel centro di Roma, sette membri della Chiesa a nome di diversi gruppi domanderanno perdono a Dio e alle vittime per gli abusi pedofili e le colpevoli negligenze. Un testo “molto profondo, molto chiaro ed esplicito” sarà letto, dice padre Hans Zollner, presidente del Comitato organizzativo del simposio e preside dell’Istituto di psicologia della Pontificia Università Gregoriana, prima che una vittima chieda, da parte sua, a Dio la forza di perdonare.

Impatto devastante sulla vita. “Il non essere creduti o, ancora peggio, l’essere incolpati per l’abuso – ha detto Sheila Hollins – contribuiscono moltissimo alla sofferenza causata dall’abuso sessuale, come la mancata ammissione della propria colpevolezza da parte di un autore di abusi o l’omissione da parte dei suoi superiori nell’intraprendere un’azione appropriata possono aggravare ulteriormente il danno”. Marie Collins, irlandese, vittima di abusi sessuali da parte di un cappellano in ospedale all’età di 13 anni, oltre cinquant’anni fa, ha raccontato la sua esperienza: “Il fatto che colui che abusava di me fosse un prete, aumentò la grande confusione che avevo in testa”. L’affermazione fatta dal cappellano “di essere un prete e che quindi non poteva fare nulla di male mi sembrava vera – ha aggiunto Marie –. Questo non faceva che aumentare il mio senso di colpa e la convinzione che quanto era avvenuto era colpa mia, non sua. Quando lasciai l’ospedale non ero più una bambina fiduciosa, spensierata e felice. Mi ero convinta di essere una persona cattiva e di aver bisogno di nasconderlo a tutti”. Di qui la conseguenza: “Mi ritirai in me stessa, allontanandomi dalla mia famiglia e dai miei amici, ed evitai il contatto con gli altri”. Secondo Hollins, “le vittime trovano difficile fidarsi di altre persone e questo ha un impatto devastante sulla loro capacità di creare delle amicizie e delle relazioni intime, come anche sulle loro relazioni lavorative. Influisce anche sulle loro scelte di carriera e porta molti a voltare le spalle alla Chiesa e a perdere la loro fede”.

Giustizia e guarigione. Marie ha avuto il coraggio di parlare per la prima volta del suo abuso a quarantasette anni, ma non l’ha aiutata il fatto che all’inizio il cappellano fu coperto dalla Chiesa locale. “Nella mia esperienza – ha evidenziato la psichiatra –, la mancanza di un’ammissione di colpa e di scuse è di solito il principale ostacolo al risanamento e alla guarigione. Da persona di fede, credo molto nel potere del perdono come agente di guarigione. Ma il perdono raramente viene raggiunto senza la confessione e la riparazione”. La giustizia è dunque “una necessità per le vittime degli abusi sessuali del clero”. In realtà, “l’essere creduti ha di per sé un potere di guarigione, specialmente se associato con un’ammissione di colpa o responsabilità e ancora di più se c’è un tentativo di riparazione”. Ma questo tipo di giustizia è solo l’inizio. “La guarigione – ha sostenuto la psichiatra – è un processo lento e alcuni non guariranno mai del tutto per un abuso così profondo di potere e fiducia subìto quando erano più vulnerabili, specialmente se chi ha commesso l’abuso era un prete. Un’assistenza continua, l’amicizia e la disponibilità ad ascoltare ripetutamente la rabbia e la fragilità rimaste richiederanno una considerevole pazienza”. “L’inizio della guarigione per me – ha raccontato Collins – è stato il giorno in cui il mio aggressore in tribunale ha riconosciuto la propria responsabilità per le sue azioni ed ha ammesso la sua colpa”. “Il tempo – ha proseguito – mi ha permesso di perdonare ciò che aveva fatto e di non sentire più lui come una presenza nella mia vita. Potevo prendere il controllo della mia vita”. Malgrado l’esperienza negativa, “la mia fede in Dio non è stata intaccata. Posso perdonare al mio aggressore le sue azioni”, ma ci deve essere anche “il riconoscimento e l’ammissione di responsabilità per il male e la distruzione che è stata fatta nella vita delle vittime e delle loro famiglie a causa della copertura” dei casi di abusi. “Sento – ha concluso – che il meglio della mia vita è iniziato quindici anni fa, quando il mio aggressore fu assicurato alla giustizia. Durante questi anni ho lavorato con la mia diocesi e più in generale con la Chiesa cattolica irlandese per migliorare le loro politiche di protezione dei bambini. La mia vita non è più una terra sterile. Sento che ciò ha significato e valore”.