50° CONCILIO - DOCUMENTI

La missione del prete

Il decreto “Presbyterorum Ordinis”

Del magistero inatteso del Concilio Vaticano II fa parte anche “Presbyterorum Ordinis”, il decreto sul ministero e la vita dei presbiteri. Approvato alla conclusione dei lavori, il 7 dicembre 1965, dopo due anni di discussioni e sette stesure successive, all’apertura dell’assise il documento non era affatto previsto. Il ministero sacerdotale risultava confinato in un paragrafo dello schema “De Ecclesia”: dieci righe in cui si ribadiva la dottrina tradizionale sul sacerdozio. Mentre il testo andava modificandosi sempre di più, per diventare la “Lumen Gentium”, agli occhi dei Padri conciliari apparve povero lo spazio dedicato ai sacerdoti e si chiese a gran voce un ampliamento della trattazione. Nacque così il decreto sulla missione sacerdotale, da leggere insieme a “Optatam totius”, il documento dedicato alla formazione dei preti.

“Presbyterorum Ordinis” si articola in tre capitoli. Il primo, brevissimo, si apre richiamando la natura del presbiterato – “che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa” – e si conclude sottolineando l’appartenenza dei preti al popolo di Dio, nel quale vengono scelti non per essere separati da esso ma per consacrarsi interamente alla missione loro affidata.
Le funzioni dei presbiteri e i rapporti con gli altri costituiscono l’oggetto del secondo capitolo. I preti sono innanzitutto ministri della Parola di Dio e della santificazione degli uomini, che si realizza mediante i sacramenti e l’Eucaristia. L’assemblea domenicale, infatti, “è il centro della comunità dei cristiani presieduta dal presbitero”. Egli è guida ed educatore dei singoli fedeli come della comunità tutta. “Di ben poca utilità – specificano i Padri – saranno le cerimonie più belle o le associazioni più fiorenti, se non sono volte ad educare gli uomini alla maturità cristiana”.
La relazione tra i presbiteri e il vescovo è uno dei fili conduttori dell’intero documento. “Necessari collaboratori e consiglieri” del vescovo, i preti “partecipano del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo” e vivono la comunione gerarchica “uniti al loro vescovo con sincera carità e obbedienza”. Egli, da parte sua, li considera come fratelli e amici e si prende a cuore la loro vita. La fraternità è la cifra delle relazioni tra i preti; nei confronti dei laici essi sono posti “come il Maestro”, che non venne a essere servito ma a servire e a dare la sua stessa vita.
La chiamata dei presbiteri alla santità dà il tono al terzo capitolo, in cui i Padri conciliari tratteggiano la spiritualità sacerdotale e affrontano il tema del celibato. Pur non richiesta dalla natura del sacerdozio, “la perfetta e perpetua continenza per il regno dei Cieli” è segno della carità pastorale e fonte di fecondità spirituale. Nel confermare la legge del celibato presbiterale, il documento lo definisce “un dono meraviglioso che il Padre ha loro concesso e che il Signore ha così esplicitamente esaltato”. Nessun aspetto della vita del prete è trascurato: dall’invito ad abbracciare la povertà volontaria alla riforma del sistema di sostentamento del clero, dalla cultura umana agli studi teologici.

Col decreto “Presbyterorum Ordinis” i Padri conciliari non mutano la teologia e la prassi del sacerdozio; la approfondiscono però secondo alcune prospettive di grande attualità, di cui non si può dire oggi completata la recezione. In primo luogo, va notata la progressiva massiccia sostituzione del singolare con il plurale: il documento non cede nulla all’individualismo sacerdotale e, fedele all’ecclesiologia di comunione, rimette al centro il tema del presbiterio, dando ad esso una pregnanza teologica ben più profonda di una semplice valenza operativa. La profonda comunione che lega coloro che ricevono lo stesso sacramento dell’ordine ne fa un solo “corpo” sotto la guida del vescovo. È interessante vedere anche l’inversione dei termini nel sottotitolo. Se all’inizio si parlava di “vita e ministero” del prete, a un certo punto la trattazione è capovolta, a indicare come sia il ministero sacerdotale a plasmare l’esistenza del prete e a condurlo alla santità.
Cinquant’anni dopo il panorama appare molto diverso, tanto è cambiata la vita dei preti e le condizioni storiche in cui esercitano il loro ministero. Il calo numerico non è la sola differenza intervenuta. In positivo le novità riguardano certamente le (non secondarie) condizioni economiche ma anche quelle pastorali, con un’apprezzabile crescita di forme di fraternità e di collaborazione, sia nel clero sia tra preti e laici. Si tratta di passi avanti molto significativi che mostrano il cuore del pensiero conciliare: la questione del prete, come quella di ciascuna vocazione e ministero, non può essere considerata da sola, ma rimanda alla visione complessiva che si ha della Chiesa.

Ernesto Diaco – vice responsabile del Servizio nazionale per il progetto culturale (Cei)

(17 ottobre 2012)