50° CONCILIO
Il decreto “Christus Dominus”
Il decreto sulla missione pastorale dei vescovi nella Chiesa, dal titolo latino “Christus Dominus”, fu votato nel Concilio Vaticano II a pochi giorni dalla sua conclusione – precisamente il 28 ottobre 1965 – praticamente all’unanimità, poiché ottenne 2.319 voti a favore, appena 2 contrari e 1 nullo, e fu quindi ratificato e promulgato da Paolo VI. È chiamato “decreto” poiché si presenta con un marcato carattere pastorale: si richiama alla dottrina sull’episcopato già presentata dalla costituzione dogmatica sulla Chiesa (“Lumen Gentium”) e offre le linee guida per lo svolgimento della missione dei vescovi.
Il decreto è diviso in tre capitoli. Nel primo tratta della posizione dei vescovi nei confronti della Chiesa universale (il collegio episcopale, il sinodo dei vescovi, la sollecitudine per la Chiesa universale) e nei confronti della Santa Sede (il potere dei vescovi nelle loro diocesi, la curia romana). Nel secondo capitolo si parla dei vescovi e le Chiese particolari, con la presentazione dei tre ministeri: insegnare, santificare, governare da pastori d’anime. In una seconda parte di questo capitolo centrale si affronta la questione della revisione dei confini delle diocesi. In una terza parte si tratta dei cooperatori del vescovo: vescovi coadiutori e ausiliari, curia e consigli diocesani, clero diocesano. Infine, nella quarta parte si parla dei religiosi. Nel capitolo terzo si presentano orientamenti e indicazioni riguardo ai sinodi e concili particolari, alle conferenze episcopali, alle province e regioni ecclesiastiche.
Nel decreto merita di essere evidenziata la visione sacramentale dell’episcopato. Il n. 4 afferma: “I vescovi, in virtù della loro sacramentale consacrazione e in gerarchica comunione con il capo e con i membri del collegio, sono costituiti membri del corpo episcopale”. Si ripropone la dottrina già esposta nella “Lumen Gentium”: “Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione tiene il primo posto l’ufficio di quelli che, costituiti nell’episcopato, per successione che decorre ininterrotta dall’origine, possiedono il tralcio del seme apostolico” (n. 20).
Veniva così chiusa una questione che datava da tempi remoti. San Girolamo, per esempio, nel quarto secolo, sosteneva che dal punto di vista del sacramento, del carisma ministeriale, non esiste una differenza tra il vescovo e i preti. Egli non nega la legittimità del ministero del vescovo, ma sostiene che si tratta puramente di una distribuzione funzionale di compiti, necessaria di fatto per l’unità della Chiesa.
Le questioni intorno all’episcopato lungo i secoli derivano soprattutto dal progressivo accentuarsi delle sue funzioni giurisdizionali a scapito del ministero della parola e dei compiti sacerdotali e pastorali. E proprio nel campo giurisdizionale, per il progressivo movimento di centralizzazione papale, la figura del vescovo non trova un posto preciso: per molti, se il papa ha un’autorità su tutta la Chiesa universale, i vescovi non possono averla sulle Chiese particolari, se non derivata dal papa stesso. Ogni concezione che vedesse nell’episcopato un’istituzione divina, un sacramento voluto da Cristo, sembrava porsi inevitabilmente in conflitto con il primato romano.
Quando il Concilio Vaticano I definì in maniera solenne il primato del papa, molti pensarono che la questione dell’episcopato fosse chiusa per sempre e addirittura fosse finita per la Chiesa l’epoca dei concili. Di fatto sul piano dottrinale la questione rimase aperta e finalmente con il Concilio Vaticano II si è pervenuti a sostenere che l’episcopato è un vero e proprio sacramento istituito da Gesù Cristo. Pertanto, per il Concilio i vescovi “reggono le Chiese particolari loro affidate come vicari e delegati di Cristo” e “non devono esser considerati vicari dei romani pontefici” (LG 27).
Il recupero del valore sacramentale dell’episcopato si accompagna da vicino con il recupero del significato della Chiesa particolare. Questa non può essere ridotta a una suddivisione burocratica di quella universale, né a una semplice entità amministrativa.
Riscoprendo il ruolo della collegialità dei vescovi, la Chiesa locale, l’importanza dei laici e degli organismi di partecipazione, come i consigli presbiterali e pastorali, il Concilio ha sostituito alla logica della rappresentanza la spiritualità di comunione e la logica della partecipazione diretta, tipiche della Chiesa dei primi secoli. Con la varietà dei carismi e dei ministeri che lo Spirito Santo suscita direttamente e liberamente nel vissuto quotidiano e concreto della Chiesa, nasce una ricchezza che ricade a vantaggio di tutta la Chiesa stessa. Certo, alla gerarchia spetta il compito di discernere e autenticare i carismi, non però quello di crearli. Infatti i pastori hanno il carisma della sintesi, non la sintesi dei carismi.
Francesco Lambiasi – vescovo di Rimini e presidente della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata
(31 ottobre 2012)