FESTIVAL DI VENEZIA

Nel cinema italiano” “un profumo intenso” “di neo-neorealismo

Da Gianfranco Rosi (“Sacro GRA”) a Daniele Gaglianone (“La mia classe”), da Emma Dante (“Via Castellana Bandera”) a Costanza Quatriglio (“Con il fiato sospeso”), per finire con Gianno Amelio e il suo “L’intrepido”… è tutta una rivincita della narrazione del reale

Alla 70ma Mostra del Cinema di Venezia è sembrato tornar di moda il realismo. Un documentario italiano, "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi, ha vinto il massimo premio del festival veneziano, il Leone d’Oro. C’erano altri film italiani di finzione, ma tutti erano focalizzati sul racconto della realtà contemporanea. "La mia classe" di Daniele Gaglianone con Valerio Mastandrea, sul tema dell’integrazione degli immigrati. "Via Castellana Bandera", uno scontro fra due donne per una questione di precedenza automobilistica in un vicolo di Palermo, scritto e diretto dalla regista teatrale Emma Dante. "Con il fiato sospeso" di Costanza Quatriglio, bellissimo, con Alba Rohrwacher, sulla vicenda che portò alla chiusura dei laboratori della facoltà di farmacia di Catania. Fra i tanti, c’era anche "L’intrepido" di Gianni Amelio, con Antonio Albanese. Forse il titolo più interessante dell’intera rassegna anche se il meno gratificato dai premi e dalla critica. La catena di solidarietà degli autori del cinema italiano. "La catena di solidarietà che i bagnanti in vacanza sulla spiaggia di Morghella-Pachino hanno steso in mare per prestare soccorso all’ennesimo barcone di migranti in difficoltà è simile, per certi versi, alla catena di solidarietà che gli autori migliori del nostro cinema stendono ogni giorno per prestare soccorso alla deriva dei valori del nostro Paese", ha detto a Venezia Paolo del Brocco, Amministratore Delegato di Rai Cinema, che ha prodotto molti dei film italiani selezionati per il festival veneziano. Due scuole estetiche per il racconto della realtà. Al festival di Venezia sono emerse due scuole estetiche e di pensiero per il racconto della realtà. Da una parte, per esempio, il documentario sul Grande Raccordo Anulare (GRA) di Roma scritto e realizzato da Gianfranco Rosi. Uno sguardo distaccato, freddo, asettico, quasi anaffettivo, con la macchina da presa volutamente lontana dai soggetti. Dall’altra il coinvolgimento intimo e personale dell’autore con la macchina che indugia nei primissimi piani degli attori. Come nel caso di "Con il fiato sospeso" della Quatriglio (i momenti finali dell’intervista con la ricercatrice interpretata dalla Rohrwacher, con l’obiettivo a pochi centimetri dal suo volto, hanno fatto scattare più di una lacrima furtiva in sala). Una tendenza internazionale. Si tratta di un dualismo autoriale che trova riscontro anche nella cinematografia internazionale vista al Lido. Da una parte film estetizzanti fino alla repulsione come "Stray Dogs" del regista taiwanese Tsai Ming-liang (storie terribili di emarginati) o come il durissimo "Miss Violence" del greco Alexandros Avranas (un nonno padrone che costringe alla prostituzione le donne della sua famiglia, compresa la nipotina minorenne): una regia geometrica, lontana anche fisicamente dal soggetto della narrazione, come a non voler esprimere giudizi sull’orrore che si intende narrare. Dall’altra, invece, film come "Joe" di David Gordon Green, con Nicholas Cage, o "Child of God" di James Franco. Storie di violenza anche in questo caso ma con le macchine da presa ad esplorare i movimenti più impercettibili del volto degli attori. Per partecipare e per esprimere un giudizio. La nuova poetica del cinema italiano. La nuova poetica del cinema italiano, però, in alcuni casi è riuscita ad andare oltre a questa filosofia dell’immagine. Costanza Quatriglio, regista attenta e appassionata, è sembrata interessata soprattutto alla forza delle emozioni più intime della storia. Non si è sottratta al giudizio morale e ha trascinato lo spettatore in una narrazione intima e quasi sottopelle. La sua storia del ricercatore morto di cancro ai polmoni per l’assenza di adeguate misure di profilassi e di sicurezza nel laboratorio di farmacia dell’Università di Catania, ha fatto scattare un abbraccio di empatia con tutti quei giovani che non trovano nelle strutture di formazione del nostro paese la risposta al proprio desiderio di futuro. Tutt’altro che una scelta di autore asettica e anaffettiva. Si trova la stessa poetica nel cinema di Gianni Amelio. Il cinema come scelta morale. Anche un movimento della macchina da presa è una scelta morale, diceva Roberto Rossellini, maestro del neorealismo italiano. Una lezione di regia "morale" che si ritrova nel commovente ritratto di Antonio Pane, disoccupato milanese che si arrangia in mille lavoretti, il protagonista de "L’intrepido" di Amelio. Interpretato da Antonio Albanese (bravissimo quando recita e si dimentica di essere un cabarettista), ha fatto evocare alcuni mostri sacri del passato, come Charlot. La poetica di Amelio è commovente e non risparmia il giudizio morale sul degrado che stiamo vivendo. Così come è commovente il suo accanito desiderio di continuare a raccontare l’evoluzione del nostro paese senza cedere alle mode dei salotti intellettuali, senza perdere il contatto con la verità contraddittoria ma autentica dell’umanità della strada. Per raccontare la realtà e scrivere film si deve prendere il tram ogni mattina, diceva un altro grande del neorealismo come Cesare Zavattini. La realtà si deve pedinare, spiegava. Senza concessioni alle sterili lusinghe dell’estetica fine a se stessa. Senza dimenticare il cuore dello spettatore.