Nei Quartieri Spagnoli
Grazie all’Associazione “Socialmente pericolosi” che opera nel rione di Napoli, cinque giovani hanno prodotto dei cortometraggi, con i quali hanno partecipato al Giffoni Film Festival, e documentari per la Rai. Storie di vita, della loro vita in bilico “in strada, tra i vicoli e i vasci”, dove l’ignoranza è la migliore alleata della camorra, sempre pronta ad arruolarli. Ma dal “ghetto” si può uscire
La speranza non è morta. Almeno per i cinque giovani, dai 20 ai 33 anni, coinvolti nella ricerca sociale di Angelo Romeo sull’Associazione “Socialmente pericolosi”, fondata dal giornalista Fabio Venditti, assieme all’ergastolano Mario Savio, nei Quartieri Spagnoli, rione di Napoli, tristemente noto per l’alta concentrazione di delinquenza. Il nome dell’Associazione – che dà anche il titolo al libro di Romeo, “Socialmente pericolosi. Le storie di vita dei giovani nei Quartieri spagnoli di Napoli” (Mimesis Edizioni, collana “Eterotopie”), che riprende la ricerca sociale sul campo – non deve trarre in inganno: è “una provocazione” e “una scommessa”, perché l’Associazione nasce proprio dall’idea di non piegarsi alla mentalità criminale e ai voleri della camorra. Grazie all’Associazione i cinque giovani hanno prodotto dei cortometraggi, con i quali hanno partecipato al Giffoni Film Festival, e documentari per la Rai. Perciò, la speranza non è morta, malgrado gli abitanti dei Quartieri, a ragione o a torto, siano considerati tutti un caso disperato.
Dalle cinque storie raccontate attraverso le interviste ai giovani protagonisti emerge che dal “ghetto” si può uscire. “Le tre parole chiave utili da leggere nelle loro storie sono: incertezza, buio, rinascita – avverte l’autore -. Una triade che cerca di far convivere diverse contraddizioni”, che caratterizzano i Quartieri spagnoli. Un luogo dove l’ignoranza “garantisce il rispetto da parte di chi vi cresce verso i boss, ma anche verso chi non lavora quotidianamente”. Un quartiere “dove il tempo a volte sembra essersi fermato, dove le dinamiche e i rituali quotidiani rimangono immutati”. Infatti, camminare per i vicoli del rione, con i panni stesi da un balcone all’altro, le voci dei venditori ambulanti che promuovono i loro prodotti, dà l’idea di entrare quasi “in un set cinematografico d’altri tempi”.
I cinque giovani, malgrado siano vissuti in questo contesto difficile e siano stati più volte in bilico sul confine del lecito e dell’illecito avendo vissuto esperienze di forte devianza, grazie al progetto in cui sono stati coinvolti, adesso stanno imparando “a credere nelle loro potenzialità”, con “la voglia di dimostrare a chi li incontra che non sono tutti delinquenti e camorristi, che il futuro ci può e ci deve essere, anche se a volte lo vedono un po’ buio”. Come dice in un’intervista uno dei cinque giovani, “se qualcuno vuole, qualcosa si può cambiare, perché si può cambiare”, a patto, però, di mettere al bando, prima di tutto, l’ignoranza. Anche la “scelta di seguire la camorra” è legata al fatto di essere “ignoranti”. Il problema è che nei Quartieri la scuola non è vista come un luogo in cui poter crescere e imparare per il futuro, ma quasi come una perdita di tempo, che insieme con le difficoltà economiche delle famiglie diviene la principale causa dell’abbandono scolastico. Così la maggioranza dei ragazzi iniziano a vivere le loro prime esperienze e le prime tappe della socializzazione “in strada, tra i vicoli e i vasci (bassi, ndr)”. D’altra parte, la bassa scolarizzazione è sempre stata una chiave d’accesso ai giovani da parte della camorra e non c’è il baluardo della famiglia a difendere dalle lusinghe di guadagni facili. “La maggior parte dei problemi dipende anche dal contesto familiare, dagli stimoli e dalla possibilità economica, i valori, che hai. La famiglia qui deve pensare ad altre cose, non ti segue molto”.
Nella storia dei cinque protagonisti qualcosa cambia, grazie all’Associazione “Socialmente pericolosi”: “I giovani di Napoli – afferma uno di loro – devono vivere. Non devono pensare alla camorra. Devono pensare a costruirsi da soli, noi ci stiamo costruendo con le nostre mani… Se aspettiamo che arrivi l’aiuto dalle istituzioni, non succederà mai. Allora, il destino dobbiamo costruircelo noi con le mani nostre”. Questo anelito di speranza che traspare dalle cinque interviste fa sì che il libro di Romeo sfugga al “dolorismo” di tanti libri, inchieste, sceneggiati televisivi su Napoli e in particolare sui ghetti urbani della miseria, come scrive Franco Ferrarotti nella prefazione. Ed è proprio la speranza che spinge i giovani a guardare avanti dentro un progetto che ha come motto “abbandonare le pistole, per impugnare una telecamera” e costruirsi così “un futuro migliore”.