Dal convegno di Salerno

“Scossa per il dialogo alla Chiesa italiana e alla sinagoga italiana”

Don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso (Unedi) della Conferenza episcopale italiana: “Riprendere il lavoro di tessitura”. Dallo stile dei pellegrinaggi per “valorizzarne l’aspetto multiculturale, multietnico e multireligioso” alla lettura comune delle Scritture. Sottolineata l’eloquenza dei “gesti nuovi” di Papa Francesco

“Un incontro molto intenso, con molta ‘carne al fuoco’ e con tanti relatori che hanno preso la parola”. Così don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso (Unedi) della Conferenza episcopale italiana, sintetizza per il Sir il convegno “Invocheremo il Nome dell’Eterno concordemente uniti. Prospettive sul re-incontro tra ebrei e cristiani”, promosso dall’Unedi dal 24 al 26 novembre, a Salerno.

Don Cristiano, dopo il convegno, quali sono le prospettive per il futuro?
“Mi pare che il lavoro cominci adesso, con il riprendere del lavoro di tessitura del dialogo e dell’incontro. Si tratta ora di ripensare con calma i vari temi che sono stati affrontati e cercare di capire quali piste possono essere percorribili a livello concreto e poi individuare persone che credano in questa realtà e ‘si buttino’ con un po’ di passione, oltre che competenza, per portare avanti il discorso iniziato. Ad esempio, un primo aspetto sul quale ci siamo confrontati è cosa si riesce a fare a livello di pellegrinaggi: tutte le nostre diocesi ne fanno in Terra Santa, andiamo nei luoghi cristiani, ma siamo anche in una terra che è di Israele e questo non sempre viene valorizzato. Occorre, quindi, studiare come ciò sia fattibile, senza mai dimenticare che quella è terra d’Israele, dove abitano anche cristiani e musulmani. È necessario valorizzare questo aspetto multiculturale, multietnico e multireligioso”.

Ci sono altri aspetti interessanti che sono emersi in questi giorni?
“Un altro aspetto che è stato trattato è il discorso di una lettura comune delle Scritture. Tutto quello che noi chiamiamo Antico Testamento, tre quarti della Bibbia, è condiviso tra cristiani ed ebrei, anche se con prospettive diverse: i cristiani ci vedono la profezia di Gesù, mentre gli ebrei lo leggono in un’altra maniera. Nel tempo quasi ci siamo appropriati del tesoro dell’Antico Testamento, senza più interpellare chi ce l’ha consegnato: il popolo ebraico. Anche questo è un discorso da valorizzare nel tentativo di leggere insieme quella parte delle Scritture. Anche perché la prima Lettura domenicale, per la maggior parte dell’anno, viene dall’Antico Testamento. Poi abbiamo discusso come trovare piste nuove per il dialogo. Per il convegno abbiamo chiamato rabbini di tutto il mondo, per dare una ‘scossa’ alla Chiesa italiana e alla sinagoga italiana perché non tutti, da entrambe le parti, sono aperti al dialogo. Dopo questo forte segnale, ora le cose possono essere riprese in modo più familiare, anche cercando di far di tutto perché ci sia una ricaduta a livello locale”.

Nel suo saluto monsignor Nunzio Galantino ha invitato a dialogare con coraggio profetico, senza nascondere i dubbi: quali sono secondo lei le difficoltà oggi del dialogo con il mondo ebraico?
“Una difficoltà dipende da come si interpreta la questione dello Stato di Israele. Il mondo ebraico vede lo Stato di Israele come un ‘finalmente’ e su questo i cristiani non possono che essere d’accordo perché il legame con la terra è scritto nel Dna del popolo di Israele: quella è la terra dei padri, è la terra promessa. Ma perché questo si possa realizzare si deve trovare un ‘compromesso’ con la gente che lì vive: i palestinesi, cristiani e musulmani, che pure sono fratelli in umanità e destinatari dell’unica alleanza che Dio ha voluto con tutti i popoli, di cui Israele è il segno, ma non è l’unico depositario. Lo abbiamo detto in questi giorni, ma c’è una fatica: Israele dal punto di vista politico tiene la sua parte ed è comprensibile; mentre la nostra difficoltà di cristiani è la tentazione di fare il partito pro israeliano o pro palestinese, quando invece non possiamo giudicare nulla. Questo è un nodo irrisolto, perché ci sono drammi umani da entrambe le parti”.

Monsignor Mansueto Bianchi ha parlato durante il convegno di “un’alba di una coscienza nuova tra ebrei e cristiani”, senza nascondere le differenze…
“Le differenze contano quando le vediamo, da entrambe le parti, come arricchimento reciproco. Infatti, se riconosco che la differenza dell’altro può provocare anche me ad essere più attento, più responsabile, più aperto, allora diventa ricchezza. L’arcivescovo Bruno Forte nel suo intervento ha parlato di complementarietà”.

Il nuovo stile di Papa Francesco quanto può aiutare nel rapporto tra cristiani ed ebrei?
“Moltissimo perché è un nuovo stile, ma non una nuova teologia. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI dicevano le stesse cose, solo con stile diverso. Papa Francesco è arrivato in un momento in cui le cose da dire erano state dette sia dai vertici sia dalla base, con un riconoscimento di una necessità teologica dell’incontro reciproco tra ebrei e cristiani. In questo Papa Francesco è stato provvidenziale, se non addirittura profetico quando ha scelto di dire le stesse cose a livello di gesti. L’abbraccio tra il Papa, il rabbino Abraham Skorka e l’islamico Omar Abboud davanti al Muro del Pianto, a Gerusalemme, a maggio scorso, dice molto anche se non è stata espressa nessuna parola nuova, ma un gesto nuovo”.

Quali collaborazioni vede possibili tra ebrei e cristiani? Monsignor Galantino ha suggerito un’attenzione particolare ai fratelli perseguitati…
“Questo è sicuramente un terreno possibile sul quale si può lavorare. Dobbiamo poi in qualche maniera affidare anche al tempo la volontà di parlarsi, di confrontarsi. Io vengo dalla zona delle Dolomiti: lì nei millenni sedimenti su sedimenti nel tempo hanno costruito le Dolomiti. Penso che qui sia la stessa cosa. Durante il convegno ci siamo detti tante cose. Dobbiamo lasciarle decantare: potranno tirar su ben più delle Dolomiti”.