A MORTE SAIF GHEDDAFI
Pena capitale: così ha stabilito il Governo islamista di Tripoli, non riconosciuto dalla comunità internazionale, che ha condannato Saif al Islam, secondogenito di Muammar Gheddafi, alla "morte per fucilazione". Capi di accusa: crimini di guerra e repressione di proteste pacifiche durante la rivoluzione del 2011. Un verdetto emanato dopo un processo durato poco più di un anno.Era iniziato ad aprile 2014, prima dello scontro tra fazioni rivali che ha portato il Paese a nuove fratture e creato due governi paralleli a Tobruk e Tripoli. Saif era considerato il delfino del padre e suo più diretto collaboratore. Durante i giorni della guerra civile e dei bombardamenti della Nato era il portavoce del governo. La condanna raggiunge Saif mentre è nelle mani, dal 2011, delle milizie di Zintan, una delle 1.700 bande armate che si contendono oggi il potere in Libia, alleate del governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale. Quest’ultimo ha subito definito il verdetto "illegittimo". Lo stesso hanno fatto molte organizzazioni e istituzioni internazionali come Onu e Consiglio d’Europa che pure avevano denunciato i crimini commessi da Saif durante la primavera libica. In questo contesto fucilare il figlio di Gheddafi non rappresenta certo un atto di giustizia ma solo il tentativo, per il Governo islamista di Tripoli, di accreditarsi come il vero rappresentante della rivoluzione del 2011.La sua condanna a morte appare come uno strumento di potere mostrato con forza in un Paese spaccato, frammentato e senza un vero Stato, incapace di riunire le sue diverse anime e ripartire. Una situazione di cui è responsabile anche la comunità internazionale che ha avuto nel colonnello Gheddafi uno dei suoi interlocutori, con la sua tenda beduina sempre aperta a tanti leader pronti ad omaggiarlo. Oggi, però, il posto di Saif non è davanti ad un plotone di esecuzione ma davanti ai giudici del Tribunale internazionale dell’Aja che già nel 2014 ne avevano chiesto l’estradizione. Consegnarlo all’Aja sarebbe un gesto di responsabilità politica. Il sangue del tiranno, infatti, non laverà i suoi misfatti, tutt’altro. Chiamerà altro sangue e annienterà la giustizia, avvicinando ancora di più la Libia all’orlo del baratro.