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Tor Bella Monaca dove il male e il bene lottano (e si vede)” “

Il quartiere all’estrema periferia sud della Capitale è il regno delle case popolari. Trentamila abitanti, dei quali il 30 per cento ha un contenzioso con la giustizia. Questo è uno dei principali spacci di droga: è una zona franca dove si va e si viene per comprarla. Non meraviglia la difesa dei pusher e l’assalto alla polizia. “Lo Stato è percepito come un nemico”. Servizi sociali al lumicino

"Torbella". Lo chiamano così il quartiere all’estrema periferia sud di Roma. Un agglomerato di palazzoni tutti grigi. Tutti uguali. Tutti con le parabole alle finestre. Frutto di una scellerata politica romana che alla fine degli anni Settanta e con un picco negli anni Novanta ha deciso di concentrare qui l’edilizia pubblica. Significa case popolari. Significa che per accedere all’assegnazione di un’abitazione devi avere un passato pesante di degrado fatto di detenzione, tossicodipendenza, disoccupazione unita molto spesso a malattie croniche come epatite B, C, Hiv. Più sei "fuori", più hai accesso a una casa a Tor Bella Monaca: il quartiere conta oggi 30mila abitanti. Il 30 per cento della popolazione ha un contenzioso con la giustizia: o è detenuto o è agli arresti domiciliari. La disoccupazione è altissima e se cerchi lavoro, lo trovi e dici che sei di "Torbella", ti mandano via perché non dai garanzie. Succede davvero ed è purtroppo il segno più evidente dello sguardo che la città eterna ha su questo quartiere. Il 19 per cento della popolazione minorile in età scolastica non frequenta più le scuole. E prima o poi, molto prima che poi, entra nel giro della droga, dell’alcol, del gioco d’azzardo.

È Marco Bertolini, operatore sociale della cooperativa Cospexa a presentare il quartiere dove lavora. Arrivò qui 26 anni fa e nel suo primo giorno di lavoro si trovò nel mezzo di un conflitto a fuoco tra due uomini che si sparavano da un palazzo all’altro. Marco parcheggiò la macchina ma rimase accucciato dietro ai sedili. Largo Fiorucci Mengaroni, via Merlini, via di Santa Rita. Ogni strada ha una storia di sangue e di dolore da raccontare: in via Arnaldo Brandizzi un ragazzo tossico è morto mentre cercava di scappare lungo le terrazze del palazzo. In via Quaglia, lo scorso anno, ne è morto un altro: gli hanno sparato, sicuramente per un brutto giro di droga. "Tor Bella Monaca – dice Marco – è un luogo di spaccio e di consumo. E se la droga è un male trasversale che attraversa la città in tutti i suoi ceti sociali e quartieri, qui è una zona franca dove si va e si viene per comprarla". Il quartiere in questi giorni è presidiato dalle forze dell’ordine. Le macchine della polizia sono ovunque. D’altra parte è di soli pochi giorni fa il tentato arresto di due pusher in via dell’Archeologia. L’arresto è fallito miseramente perché la popolazione del quartiere è scesa in strada ed ha fatto scudo ai due malviventi che sono riusciti a scappare. Non è la prima volta che succede. "Avvenne la stessa cosa qualche anno fa – ricorda Marco -, sempre nella stessa zona. Il dispiegamento delle forze dell’ordine era notevole con 20 macchine della polizia sul posto ma per impedire l’arresto, dai palazzi venne giù di tutto. Ricordo addirittura un water". Se in Italia si vive male la macchina dello Stato per il continuo aumento delle tasse, per i giri di malaffare, "qui, in un contesto esplosivo come questo, lo Stato è addirittura percepito come un nemico". Subentra poi una sorta di "solidarietà" tra gli abitanti di questo quartiere. Nel bene e nel male. Qui, raramente c’è gente lasciata sola e "un piatto di pasta si trova sempre". E, infine, c’è la paura della ritorsione, nel senso che "la gente onesta vive in difesa, non esce allo scoperto, non denuncia perché le conseguenze sarebbero tali da mettere a rischio la vita stessa".

Droga, disagio, emarginazione e soprattutto criminalità. Tra le piaghe di questo quartiere, il volontariato e l’associazionismo è fortemente presente. Sono punti di riferimento, luoghi dove chiedere e ricevere aiuto. C’è la Comunità di Sant’Egidio dove in via dell’Archeologia gestisce un "laboratorio d’arte sperimentale". C’è la comunità di Capodarco che da 27 anni opera nel quartiere con un centro diurno per disabili. Negli anni Novanta il centro offriva un servizio a tutto campo – racconta Massimo Crucioli – oggi con il continuo taglio dei finanziamenti ci siamo dovuti concentrare sulla disabilità in quanto in un contesto come questo, l’handicap diventa una priorità assoluta". Ci sono anche le suore missionarie della carità, le suorine con il saio bianco e blu di Madre Teresa. La loro casa fa da centro di accoglienza per bambini. È il giorno di riposo e di preghiera. Una donna con un bambino al di là del cancello aspetta seduta su una sedia. Una suorina esce con un pacco di viveri in mano. Alle domande – dice – preferisce non rispondere. Ci spiega, quasi scusandosi, che "la loro missione è nascosta e la conosce solo Lui", indicando con la mano verso il cielo.

Dietro la casa delle suore di Madre Teresa, si apre un parchetto arido di pini e sterpaglie. È l’inferno della droga, della morte, della dipendenza. Il terreno è cosparso di siringhe e fazzoletti imbrattati di sangue. In fondo, verso un cavalcavia, una donna ha lasciato un cartellone colorato: "Per ricordare Sergio. Si è addormentato per sempre a 34 anni. Qui in gioco c’è la vita. Corri a salvarla. È tua. Una mamma". Tra le sterpaglie, c’è un camper della Croce Rossa che vigila sui tossicodipendenti. È presente dal lunedì al venerdì, dalle 10.30 alle 15.30, un progetto promosso dalla Fondazione Villa Maraini che ha come scopo principale la riduzione del danno con lo scambio di materiale sterile (siringhe e acqua ossigenata) per impedire la diffusione delle malattie e l’intervento immediato in caso di overdose. Ogni giorno si rivolgono dalle 200 alle 250 persone. Il responsabile dell’equipe oggi è Marcello Megalotti che dice: "Fino a che noi ci siamo, nessuno è morto". Ma quando gli operatori non ci sono il rischio di morte per overdose è altissimo. Anche qui i tagli all’assistenza si sono fatti sentire e "gli impiegati di Villa Maraini sono 5 mesi che non prendono lo stipendio".

La parrocchia di Santa Maria Madre del Redentore ha avuto la benedizione di essere stata visitata in marzo da papa Francesco. E se i mesi sono passati, la sua è una presenza ancora viva: all’ingresso della chiesa una donna mostra le fotografie che è riuscita a scattare al Papa. Racconta poi di essere malata di epatite e senza lavoro, con una figlia e una madre a carico. È qui per chiedere aiuto. È una delle tante che transitano in questa parrocchia di periferia. Di storie da raccontare qui ce ne sono tantissime. C’è un mondo che passa dal centro Caritas, animato dalle suore di Santa Giovanna Antida. Sono 250 i giovani iscritti alla Polisportiva giovanile salesiana gestita dalle suore salesiane con corsi di danza e di calcetto. I locali della parrocchia accolgono anche gruppi di alcolisti anonimi, corsi teatrali, un oratorio e due centri diurni per bambini e ragazzi con situazioni disastrate alle spalle. "È venuto giorni fa un giornalista tedesco – racconta il parroco don Francesco de Franco – per scrivere del degrado di Roma e io gli ho detto: ‘Attenti a scrivere che la periferia è solo degrado. Tor Bella Monaca può essere descritta con la parabola del brano del Vangelo della zizzania e del grano. La zizzania è tanta ed è difficile da estirpare ma qui c’è anche grano abbondante e generoso e sono tutte le persone che danno la loro disponibilità e accoglienza per fare di questo posto un luogo migliore". Le storie di riscatto, cambiamenti radicali di vita ci sono, anche se costano sacrifici e rinunce molto forti. "Questo lavoro – confida Marco, l’operatore sociale – non lo fai per lo stipendio ma per il ritorno umano che ti dà. Tante storie che incroci finiscono male ma ci sono anche quelle che finiscono bene e tu, in qualche modo, per qualche ragione, capisci di essere un autore del cambiamento".