LOTTA ALLA PEDOFILIA

Il primo processo ad un vescovo

Il primo effetto concreto delle decisioni prese – all’unanimità – durante la decima riunione del “C9”, il Consiglio di cardinali che affianca il Papa nel processo di riforma della Curia Romana. Francesco ha scelto la linea della tolleranza zero con chi si macchia degli abusi e dell’abbraccio fraterno e consolatore con le vittime degli uomini e delle donne di Chiesa

L’11 luglio 2015 verrà ricordata come una data storica. Un’altra delle "prime volte" a cui Papa Francesco ci ha abituati fin dall’inizio del pontificato. Nello stesso luogo, il Torrione di Niccolò V, in cui si è celebrato il processo a Paolo Gabriele, l’ex maggiordomo del Papa condannato per aver fatto trapelare documenti riservati, per la prima volta un vescovo viene processato penalmente in territorio vaticano. Deve rispondere di reati infamanti, con la seria possibilità di finire in carcere.
E non importa se l’imputato, l’ex arcivescovo polacco e nunzio apostolico a Santo Domingo, Jozef Wesolowski, non è per ora materialmente salito sul banco degli imputati a causa di un malore che lo ha portato al ricovero in terapia intensiva in un ospedale romano: simbolicamente il processo è già cominciato, anche se con un rinvio a data da destinarsi. Dovremo attendere la fine delle ferie estive, per seguire le puntate successive.
Questo evento senza precedenti non è apparso, però, sulla scena come un "coup de theatre": è il primo effetto concreto delle decisioni prese – all’unanimità – durante la decima riunione del "C9", il Consiglio di cardinali che affianca il Papa nel processo di riforma della Curia Romana. Un mese prima, infatti, Francesco aveva accolto le proposte della Commissione per la tutela dei minori, da lui creata nel marzo di un anno fa, d’introdurre la fattispecie del reato di "abuso d’ufficio episcopale", per i vescovi inadempienti nella denuncia di abusi da parte di membri del clero, e d’istituire presso la Congregazione per la dottrina della fede una nuova sezione giudiziaria competente in materia, con un segretario e personale stabile in servizio al Tribunale apostolico.
Ai vescovi, dunque, l’obbligo di denuncia dei reati di pedofilia, alla Congregazione per la dottrina della fede il giudizio per quello che il Papa ha definito "un culto sacrilego" che lascia nei bambini "cicatrici per tutta la vita", una "terribile oscurità" che deve far chiedere alla Chiesa "la grazia della vergogna". Perché "non c’è assolutamente posto nel ministero per coloro che abusano dei minori", come ha scritto Francesco nella lettera del 2 febbraio scorso ai presidenti delle Conferenze episcopali. E non si può tacere per evitare lo scandalo, equivarrebbe a una correità ipocrita.
C’è uno sguardo, oltre a quello di Dio che penetra fin nel profondo della coscienza di ogni essere umano – anche quella più oscurata e abbrutita – che la Chiesa deve trovare il "coraggio di sostenere, con una forza almeno pari a quella che hanno dimostrato le vittime nel denunciare l’abisso in cui sono state precipitate con la violenza: lo sguardo dei piccoli". "Oggi il cuore della Chiesa guarda gli occhi di Gesù in questi bambini e in queste bambine e vuole piangere", aveva detto il Papa nella Messa celebrata un anno fa a Santa Marta, alla presenza di sei persone ormai adulte vittime di abusi, provenienti da Germania, Irlanda e Regno Unito. Parole appassionate, quelle di Bergoglio, che nella prima omelia dedicata monograficamente al dramma della pedofilia, subito prima d’intrattenersi a lungo singolarmente con ognuno di quei sei volti, aveva chiesto la grazia che "la Chiesa pianga e ripari per i suoi figli e figlie che hanno tradito la loro missione, che hanno abusato persone innocenti con i loro abusi".
È questo il modo in cui Francesco si fa compagno di strada delle persone ferite, a volte moralmente, dalla vita, perché la morte non è solo quella fisica: il suo è un appello vivente alla "accountability". Parola invocata da tutte le vittime. Parola che chiama alla responsabilità nei confronti di delitti abominevoli di cui si macchia chi priva della dignità uno dei nostri figli.
I bambini abusati, come qualsiasi cucciolo d’uomo nel mondo, sono figli di tutti. La Chiesa deve essere "madre" in una "società di orfani", "casa sicura" per i genitori che le affidano la prole, l’appello del Papa in più di un’occasione: i bambini ci guardano, direbbe De Sica con il titolo di un suo celeberrimo film. D’ora in poi, grazie a un Papa "venuto dalla fine del mondo" che si è posto lungo una linea di splendida continuità con i suoi predecessori – Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – in un’azione di contrasto decisa e trasparente, nessuno si potrà più voltare indietro. Le ferite dei bambini sono impresse nella nostra carne. Quegli occhi ci interpellano.