MINIGONNA

Tra decadenza borghese e liberazione femminista

Come onestamente ebbe a dichiarare Mary Quant, la “mini” era semplicemente il prodotto dello spirito del tempo che si era servito di alcuni stilisti per imporre quello che era “necessario”. La femminilità diveniva diretta, senza falsi sottointesi, e rimetteva in discussione ruoli che sembravano tabù. Se Freud l’avesse conosciuta, la teoria della libido sarebbe rimasta la stessa?

Per tanti è stata uno scandalo. Le gambe femminili en plein air, avrebbero detto i pittori d’Ottocento. L’orlo delle gonne a correre vertiginosamente in su, di contro ai sensuali abiti lunghi (però con altrettanto vertiginosi spacchi) di qualche anno prima. E qui sta il punto. Nei film targati anni Cinquanta e primi Sessanta la sensualità delle formose attrici era più che suggerita da abiti che strizzavano quelle generose forme, che in realtà lasciavano ben poco alla fantasia. Qualcuno ha affermato che la minigonna è stata tutt’altro che uno scandalo, e che essa abbia sancito la fine delle ipocrisie, non solo quelle filmiche. Perché finalmente l’abito si liberava delle pruderie metà Novecento, emancipandosi e diventando proprietà delle legittime depositarie. Siano stati Mary Quant o André Courrèges a darle la definitiva consacrazione, la mini è diventata il simbolo di un’epoca, quella dei Beatles, della Swingin’ London, delle chitarre elettriche, delle marce per la pace e delle guerre post-atomiche. In realtà veniva da molto più lontano, e come assai onestamente ebbe a dichiarare Mary Quant, era semplicemente il prodotto dello spirito del tempo (in questo caso "la Strada", come disse lei qualche anno dopo), che si era servito di alcuni stilisti per imporre quello che era "necessario".
Le sue origini in realtà si perdono nel tempo degli uomini e soprattutto delle donne: la troviamo già nella Parigi di fine Ottocento, ricompare negli anni ruggenti, quelli della gioventù dorata – che ballava sul Titanic della crisi di Wall Street – raccontati da Scott Fitzgerald, la vediamo fare capolino nei cabaret, nei grandi eventi mondani, nei night, nelle manifestazioni sportive e nelle cartoline per i militari prima degli anni Sessanta. Ma non era la sua ora. Quella venne nel 1964, quando si affermò come il must con il quale si dovevano fare i conti, volenti o nolenti.
Ovviamente non mancarono le resistenze, e non erano tutte dei "passatisti", come li avrebbero chiamati i futuristi cinquant’anni prima. C’era anche chi riteneva che la mini fosse un passo indietro, una concessione ingenua e "borghese" alla commercializzazione e rappresentasse la svendita del corpo femminile. Tra i Paesi che la osteggiarono non c’erano solo quelli che rivendicavano princìpi religiosi o legati alle tradizioni. La Cina di Mao, per dirne una, fece notare che quell’indumento rappresentava una ennesima prova della decadenza del capitalismo. Non c’è da scandalizzarsi per questo: spesso i militanti di partiti marxisti hanno guardato con sospetto alle manifestazioni esteriori, viste come distrazioni "borghesi" che illudevano la gente di essere libera, mentre sottostava – a loro avviso – alle ferree leggi del capitalismo che manipolava la coscienza civile.
La minigonna riusciva insomma a rompere addirittura i fronti ideologici, a spaccare le fortezze del pensiero forte e di quello debole, a imporre nuovi interrogativi sui limiti della libertà individuale, su cosa significhi realmente pudore. Entrava a far parte del mondo della foto, della musica, dell’arte, della letteratura (nel suo romanzo "Le particelle elementari", Michel Houellebecq parla tra l’altro delle ossessioni che essa scatena nell’immaginario maschile), e come tutte le rivoluzioni epocali non fu indolore.
Per taluni favoriva la violenza sulle donne, per altri era il segno della liberazione femminile che abbatteva i tabù maschilisti, per altri ancora la fine del mistero che in ogni caso era parte integrante della seduzione.
È tramontata, ha lasciato il passo a minuscoli pantaloncini, e poi a ingombranti macro-gonne, e poi è tornata, come tutte le cose di questo mondo. Per poi tramontare e riaffacciarsi ancora nelle sfilate che contano, quelle che dettano le mode e i soldi ad esse legate.
Segno tangibile dei limiti del costume, al di qua dei grandi problemi che affliggono da sempre l’uomo, oltre gli stereotipi culturali che legavano la donna a suggeritrice di chissà quali lascivie. La femminilità diveniva diretta, senza falsi sottointesi, e rimetteva in discussione ruoli che sembravano tabù. Se Freud l’avesse conosciuta, la teoria della libido sarebbe rimasta la stessa?