TALK SHOW" "" "

Il trionfo (immeritato) della rappresentazione

Il pubblico è entrato con grande enfasi nel grande circo mediatico: è un po’ come se nei giochi gladiatori la gente avesse scavalcato le transenne lignee e si fosse messa a combattere assieme ai veri protagonisti. Dalla Atene del V secolo c’è sempre stato il rischio che i sofisti prendessero il posto dei sapienti e che la verità diventasse la capacità di meglio usare le parole. O fare più scena…

Il talk show è lo specchio della realtà? O addirittura è diventato esso stesso realtà? In fondo sono questi gli interrogativi che dagli anni Settanta (la costanziana "Bontà loro" risale al preistorico 1976) ci obbliga a porci lo "spettacolo di chiacchiere", come potremmo tradurre dall’originale inglese. Perché da una parte la gente comune, che pian piano ha preso il posto dei famosi (e il passaggio da aggettivo a sostantivo la dice lunga sulle nuove tendenze mediatiche), credeva di rappresentare se stessa, i propri problemi e le proprie inquietudini. Dall’altra la rappresentazione ha preso il sopravvento: le reazioni ad una interruzione, ad un contraddittorio, semplicemente ad una diversa opinione, sono diventate parte della realtà.
Il pubblico, da parte sua, è entrato con grande enfasi (che vuol dire ansia di apparire o di distinguersi) nel grande circo mediatico: è un po’ come se nei giochi gladiatori la gente avesse scavalcato le transenne lignee e si fosse messa a combattere assieme ai veri protagonisti.
L’illusione è che tutto questo rappresenti la realtà. Anzi, l’illusione – molto di parte – era che la gente prendesse tutto questo per realtà vera. E in parte ha funzionato, ma solo perché, facendosi forte del conclamato potere mediatico, l’illusione ha forzato i fragili equilibri. Dapprima si è posta come rappresentazione, poi, lentamente, ma inesorabilmente, ha creato una nuova realtà: l’esagitato che si incavolava prendendo a male parole il "rivale", non era più una pittoresca eccezione che ci faceva esclamare: "Presto, venite a vedere, c’è un tizio che dà fuori da matto". Era diventata una possibilità meno remota di quanto si immaginasse qualche anno prima. Dopo qualche tempo, molto per noi, ma poco per le infinite trasformazioni dello spettacolo che – come è noto – deve continuare, quel tipo di reazione era non solo parte dello spettacolo, ma aveva creato una sorta di assuefazione, poiché essa si era diffusa nella realtà, come in tutte le mode indotte. Bastava andare dal dentista o fare una fila per sentir parlare con un certo riverente rispetto di alcune reazioni muscolari nei talk show. "L’ha mandato a quel paese, hai capito come si fa? Quello sì che ha gli attributi".
Intanto però il talk diventava reality e lo scivolamento dalla supposta ma mai esistita realtà all’illusione diventava evidente. Per alcuni. "Vediamo come è la realtà", era questa la falsa premessa. Le scelte dei fidanzati o delle mogli in diretta, la sopravvivenza su un’isola più o meno deserta erano teatro nel teatro, ma senza il patto tradizionale tra lo spettatore e l’attore: io per un’oretta faccio finta di credere a quello che tu rappresenti sul palco. No. Ora viene proposta la realtà stessa sul trono dei tronisti o sull’isola degli isolati (ma con la possibilità di andarsene subito) dal mondo. Ignorando che i grandi fratelli mediatici sono sempre costruiti sullo sguardo della telecamera, sull’occhio cui nulla sfugge. Facendo finta di non sapere che, dalla parte degli "attori", c’è la necessità di comportarsi in un certo modo, perché si è pur sempre oggetto dello sguardo malizioso e voyeuristico di chi sgranocchia noccioline spaparanzato sul divano di casa sua.
Ma torniamo al talk, il padre di tutto il resto: le reazioni umane vengono suggerite, favorite. Come se la realtà fosse solo le lacrime, tanto attese, stuzzicate e inquadrate con infinita goduria, questione di punteggio nelle classifiche. Chi perde alza i tacchi. Sai che sonni, sembrano dire senza dirlo i conduttori dei talk, ma anche il pubblico, a seguire un tranquillo ed educato colloquio tra persone che non hanno nessuna, ma proprio nessuna, voglia di prendersi a male parole.
Visto che siamo in fasce pomeridiane, soprattutto, ma non esclusivamente, e quindi gli utenti non sono solo casalinghe e pensionati, ma anche ragazzi di varie fasce d’età, questa tipologia di comportamento indotto va a calarsi nell’età evolutiva. Dove appunto si sente la necessità impellente di avere modelli. La rappresentazione di un dialogo basata non sui contenuti, ma sulla stimolazione di reazioni forti trasferisce l’attenzione dai contenuti stessi alle forme. Che diventano a loro volta contenuti. Dalla Atene del V secolo c’è sempre stato il rischio che i sofisti prendessero il posto dei sapienti e che la verità diventasse la capacità di meglio usare le parole. O fare più scena, per dircela tutta.