3 - ROMA È MALATA?
Giuseppe Dalla Torre è nato e cresciuto nell’Urbe, dove ha sempre vissuto e lavorato, insegnando diritto e guidando per diversi anni, come rettore, l’Università Lumsa: “Oltre a quanto dovrebbe fare il livello amministrativo, direi che ci sono due fattori da considerare. Il primo è quello educativo… In secondo luogo, bisogna favorire fermenti aggregativi, culturali, solidali nella società civile. Ricostruendo la volontà di uscire dal proprio io, di darsi da fare”
Tornare a sperare per cambiare. E viceversa. Se una città, se una comunità è in affanno, assediata dai problemi e indebolita al suo interno, occorre ripartire "dagli stessi cittadini", dal basso, dai quartieri, "da un impegno rinnovato e disinteressato per il bene comune". Giuseppe Dalla Torre è nato e cresciuto nell’Urbe, dove ha sempre vissuto e lavorato, insegnando diritto e guidando per diversi anni, come rettore, l’Università Lumsa. La sua città finisce sulle prime pagine dei giornali con notizie quasi sempre negative ma lui non si rassegna: bisogna darsi da fare (come ammoniva anni fa Giovanni Paolo II in uno stentato dialetto romanesco), educare, ricostruire, infondere fiducia, rinnovare…
Professore, si legge che Roma è una "città malata". Lei cosa ne pensa?
"Conosciamo già i tanti problemi denunciati dalla stampa, dal traffico alle carenze infrastrutturali, da un certo degrado urbanistico fino alla sporcizia nelle strade. Ma aggiungerei che la capitale è affetta da un male oscuro’, anche se piuttosto percepibile: si tratta della forte contrazione del sentire comune, del senso di cittadinanza, del disperdersi del patrimonio di valori condivisi. Si potrà dire che questo accade non solo a Roma – ed è verissimo -, ma qui si avverte di più. Questa è una città internazionale, multietnica, con residenti provenienti da tante regioni e da Paesi stranieri, con turisti e studenti esteri. Ci sono tante Rome’, quella del centro e quelle delle innumerevoli e dispersive periferie, ogni zona con i suoi mali. Si avverte, direi, una frammentazione del corpo sociale che si abbina a un indebolirsi del sentire etico. Non è neppure un problema solo di oggi, e tanto meno è imputabile a questa o a quella Giunta. Però il problema esiste, eccome, e va affrontato".
Si punta l’indice verso la politica. Non è sufficiente, dunque?
"Ci sono innegabili responsabilità del livello politico locale, non da ora. E alcune riforme abbozzate in passato, come ad esempio l’introduzione delle Circoscrizioni che avrebbero dovuto ampliare la partecipazione dei cittadini, si sono arenate. Anzi, in alcuni casi si sono moltiplicati i centri di potere, le risse politiche, il malaffare… Però occorre riconoscere che c’è, un po’ a tutti i livelli, un disinteresse per il bene comune, il senso civico è in caduta libera. Un esempio banale? Quanta gente butta l’immondizia per strada? Sia fra i romani sia tra i turisti stranieri, quelli che a casa loro non oserebbero gettare per terra un mozzicone di sigaretta. Del resto il venir meno del senso civico è legato proprio alle carenze etiche, al venir meno del senso di solidarietà. Ovviamente non possiamo generalizzare, però guardandosi attorno queste cose le vediamo. E sappiamo anche che in altre città – in Italia o in altri Paesi – si ha un’altra impressione e tutt’altro colpo d’occhio".
Dalla diagnosi alla cura. Da dove si può ripartire per restituire a Roma la dignità di città-simbolo, l’importanza di capitale europea?
"Oltre a quanto dovrebbe fare il livello amministrativo, direi che ci sono due fattori da considerare. Il primo è quello educativo: insistendo, a tutti i livelli, dalla famiglia alla scuola, sul senso di responsabilità civica, sulla democrazia partecipativa, sull’attenzione agli altri oltre che al proprio interesse. E, in secondo luogo, bisogna favorire fermenti aggregativi, culturali, solidali nella società civile. Coinvolgendo le persone, le famiglie, le scuole, le diverse zone della città. Ricostruendo la volontà di uscire dal proprio io, di darsi da fare".
E i cattolici dove sono? Roma è la città del Papa, la "culla del cristianesimo"…
"Esiste indubbiamente un ampio tessuto cattolico in città, fatto di parrocchie, di associazioni, di volontariato, di ambienti culturali, di università. Però il contributo che si può dare alla città dipende molto dalle persone: dal clero, certo, ma soprattutto dal laicato. Quanto ci ha insegnato in proposito il Vaticano II? E quanto resta oggi di un laicato vivace in ambito culturale, sociale o politico? Anche qui non possiamo trascurare realtà esemplari, che esistono eccome! Ma ci vuole un coinvolgimento generale dei credenti per il bene comune, che in primo luogo si esplica nella comunità cittadina. Ha ragione il card. Vallini quando dice che c’è bisogno di laici cristiani che siano attivi punti di riferimento per Roma. Cristiani che non si accontentano di partecipare ai convegni, ma che abbiano voglia e capacità di passare dalla formazione all’azione".
Torniamo per un attimo a "tutti" i romani, ai residenti dei quartieri "alti" fino a quelli delle periferie più estreme, ai credenti e ai non credenti. Ci si sente fieri di avere la carta d’identità di una città-capitale, blasonata, pur sempre bella e conosciuta in tutto il mondo?
"Come spesso succede per le grandi città, dobbiamo osservare che i romani doc sono in via di estinzione. Non solo per nascita, ma anche per attaccamento alla città, per conoscenza della sua storia, dei suoi poeti, delle sue bellezze. Molti abitanti vengono da fuori e non sempre hanno legami forti con Roma. Per questa ragione bisogna puntare a costruire il senso di comunità, a indicare obiettivi comuni, a infondere speranza. Speranza per una città moderna, più vivibile, accogliente, solidale, ricca di relazioni. Anche a Roma dobbiamo tornare a sperare per cambiare, per ripartire".