NO ALLA SPERIMENTAZIONE

Sentenza sull’embrione e antropologia del limite

Un vero dialogo sociale su tematiche così “sensibili” sotto il profilo etico – quale è la questione della tutela degli embrioni umani – alla ricerca di una visuale il più possibile condivisa, è possibile soltanto se ci si apre ad un confronto sereno e approfondito proprio sul piano antropologico

La sentenza di qualche giorno fa (giovedì 27 agosto) della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo – in risposta al ricorso presentato nel 2011 da Adele Parrillo – ha definitivamente confermato la validità dell’articolo 13 della legge italiana 40/2004 e, con esso, del divieto di ogni sperimentazione (che non sia esclusivamente terapeutica o diagnostica) sugli embrioni umani, anche se "congelati" e non più impiantabili.
Come ampiamente prevedibile, la decisione dei giudici di Strasburgo ha parzialmente riacceso nel nostro Paese il dibattito pubblico sul tema, registrando in generale una sostanziale soddisfazione dell’ampio fronte a favore della tutela integrale dell’embrione umano e, contemporaneamente, le rimostranze deluse – e, talvolta, anche un po’ irritate – dei gruppi che propugnano il diritto alla libera ricerca scientifica, anche quando questa preveda il sacrificio di embrioni umani.
Reazioni – ci pare di capire – che, per entrambe le divergenti prospettive, si basano forse più sulle conclusioni della sentenza, che sulle relative motivazioni addotte dalla Corte. Queste, infatti, si limitano a considerazioni (tecniche e interpretative) di tipo giuridico, evitando accuratamente di addentrarsi in questioni di taglio antropologico o scientifico. Giusto – si dirà -, di questo e non di altro deve occuparsi la Corte. E probabilmente è vero. Le norme giuridiche, del resto, mirano a regolare il nostro vivere insieme, ma non hanno certo né il compito, né (si spera) la pretesa di stabilire quale visione antropologica o valori etici adottare in una comunità civica. Se lo fanno, travalicano il loro scopo e la loro vincolatività inevitabilmente finisce per scontrarsi con i dettami di coscienza dei singoli cittadini.
Ma rimane il fatto che un vero dialogo sociale su tematiche così "sensibili" sotto il profilo etico – quale è la questione della tutela degli embrioni umani – alla ricerca di una visuale il più possibile condivisa, è possibile soltanto se ci si apre ad un confronto sereno ed approfondito proprio sul piano antropologico. "L’antropologia – ricordava solo qualche giorno fa al meeting di Rimini monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei) – è l’elemento centrale e propulsivo del nostro operare, perché a partire da come pensiamo la persona umana e il modo in cui dovrebbe vivere, costruiamo, per quanto ci è possibile, un certo tipo di società e di esistenza individuale".
E a dire il vero, anche la Corte europea, nella sua sentenza, non ha saputo resistere del tutto alla "tentazione" di riferirsi, pur implicitamente, all’antropologia. Almeno in un passaggio finale del comunicato stampa di presentazione, dove i giudici di Strasburgo chiariscono che "gli embrioni umani non possono essere ridotti a ‘proprietà’ secondo il significato di questa disposizione (in riferimento all’art. 1 del prot.1 della Convenzione europea sui diritti umani, che tratta della ‘protezione della proprietà)". Già, perché gli esseri umani – tutti e ciascuno, qualunque sia il loro grado di sviluppo o condizione – non sono "cose" o oggetti, entità di cui si può avere il possesso diventandone "padroni". Sono soggetti che, in quanto tali, hanno diritto al riconoscimento e alla tutela della loro dignità umana, esigendo di non essere mai trattati come "mezzo" ma sempre come "fine". E non sarà certo una determinata tappa di sviluppo – neanche quella "embrionale" – a cambiare l’essere umano in un’altra realtà, per di più di valore inferiore.
La motivazione addotta dalla Corte, dunque, si limita a riconoscere e ribadire questa verità, che però non trae origine da essa (dalla "norma"), bensì emerge da una genuina riflessione antropologica. Ed è proprio a partire da questa verità che può essere operato il discernimento delle esigenze etiche ad essa connesse. Il divieto di distruggere un embrione umano a fini sperimentali è senz’altro una di queste.
In conclusione, torniamo a citare il recente intervento al meeting di Rimini di mons. Galantino, che ha parlato della cosiddetta "antropologia del limite", una prospettiva di comprensione della persona umana strutturalmente segnata dal "limite", che è incompiutezza, parzialità, precarietà. Esso si manifesta con mille volti lungo la nostra storia personale e, un tempo, per ciascuno di noi, ha assunto anche il volto di un embrione in crescita. Perciò, esortava il segretario della Cei, "occorre dare attenzione a quelli che non sono in grado di difendersi perché attendono di nascere e godere della vita". Ogni embrione umano è tra questi… ora lo riconosce anche la sentenza della Corte europea!