EDITORIALE

Non basta dire Europa. L’Ue inizia dagli Stati

Sul problema-migrazioni si punta l’indice verso Bruxelles. Ma appellarsi all’Unione diventa un alibi per negare la propria responsabilità

Con molta lentezza cresce nell’opinione pubblica, ma anche nella classe politica europea, la consapevolezza della portata epocale del movimento di profughi provenienti dalle zone di guerra dell’Africa e del Medio Oriente. Accanto a questa nuova consapevolezza si registra anche il superamento dell’illusione che si tratti di un fenomeno passeggero. La crisi innescata dal movimento di rifugiati, che coinvolge sempre più tutta l’Unione europea – dal Mediterraneo ai Balcani, dall’est al centro-nord del continente – e i suoi Stati membri, è più drammatica e più profonda per l’economia e la società di quella crisi del debito pubblico che preoccupa e impegna i governi ormai da diversi anni. Perché qui si tratta di persone, non solo di denaro e valuta.
La consapevolezza e, di conseguenza, le reazioni sono molto diverse nei singoli Paesi. Si va da una disponibilità quasi illimitata ad accogliere i rifugiati e dare loro la possibilità di una nuova vita, al rifiuto quasi totale di un coinvolgimento. Ma in tutti i Paesi risuona l’appello all’Europa di farsi carico dei problemi connessi con l’afflusso dei rifugiati. Questo appello riecheggia con enfasi diverse e con diverse intenzioni. Sembra che richiamino con forza le responsabilità dell’Europa anche i rappresentanti di quelle forze politiche a cui il processo di unificazione altrimenti non va a genio, e che fanno di tutto affinché l’Unione europea non abbia le competenze e le risorse per far fronte alle sue responsabilità. Appellarsi all’Europa, è per costoro un modo poco dispendioso di negare la propria responsabilità. Ma chi o che cosa è l’Europa, alla cui responsabilità e competenza si fa appello? Naturalmente è l’Unione europea, composta per altro da Stati membri, senza il cui apporto non esiste e che in ogni caso non può agire con una competenza e responsabilità propria. In altre parole: l’Europa inizia dai suoi Stati membri. Se questi si rifiutano di fare ciò che possono fare, l’appello all’Europa è vano. Solo con lo sforzo congiunto dei singoli cresce il potere dell’Unione. A essere interpellati non sono solo i governi e le amministrazioni, ma anche le istituzioni religiose e caritatevoli, le organizzazioni della società civile, i sindacati e gruppi di cittadini.
Rispetto alle catastrofi umanitarie che avvengono davanti agli occhi di tutti (si pensi solo al corpo del bimbo siriano trovato senza vita sulla spiaggia turca di Bodrum o il rischioso attraversamento del “muro” tra Ungheria e Serbia da parte di chi fugge da fame e guerre), e rispetto alle grandi sfide che gli Stati membri hanno di fronte e che ci si sforza di affrontare, diventa inevitabile che Europa significhi dare alle istituzioni europee gli strumenti necessari affinché possano rispondervi in collaborazione con le varie forze degli stessi Stati membri. Dovrà quindi aumentare la pressione su quei governi e parlamenti nazionali che finora per ragioni egoistiche e nazionalistiche hanno respinto soluzioni consensuali e inclusive.
Si tratta innanzitutto della disponibilità a condividere gli oneri: è inaccettabile che nei 28 Stati membri solo una piccola minoranza mostri tale volontà. Non può accadere nemmeno che ci sia un Paese che riceve più del 40% di coloro che cercano rifugio nell’Ue. Ed è inconcepibile che, proprio i Paesi dell’Europa centro-orientale, che dopo la liberazione dalla tirannia sovietica hanno ricevuto a tutto campo la solidarietà dell’Unione europea, si oppongano a un accordo sulla ripartizione delle quote.
Accanto a ciò, attraverso l’intera Unione e tutti i suoi Stati aderenti dovrà partire uno scrollone della consapevolezza che induca a un ulteriore trasferimento di sovranità verso l’Unione, per consentire una politica comune in materia di asilo e rifugiati. Una tale consapevolezza è ovviamente in contrasto con l’illusione che i singoli Stati membri possano proteggersi dall’ingresso dei profughi con il loro rifiuto e la costruzione di muri, recinzioni o misure militari. Tutti i tentativi di questo tipo falliranno: in Ungheria, Macedonia, così come in Inghilterra o altrove.
Ciò rimanda al male fondamentale della situazione europea: l’élite politica, nonostante l’evidenza, non è ancora in grado di riconoscere che la sovranità degli Stati nazionali è di fatto da tempo superata dagli sviluppi storici degli ultimi decenni. Finché i politici rimarranno ancorati alla finzione della sovranità nazionale, resteranno irrequieti spettatori della storia, anziché diventare creatori di una storia che concede all’Unione europea la reale e necessaria sovranità così da agire per il bene comune.