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Papa Francesco, i rifugiati e la concretezza del Vangelo

Il Pontefice si fa voce dell’umanità in cammino e lancia un appello a parrocchie e comunità religiose per accogliere una famiglia di immigrati

C’è una foto che in questi giorni ha commosso il mondo: Aylan, il bambino siriano di due anni tra le braccia di un soccorritore sulla spiaggia turca di Bodrum, morto annegato assieme alla mamma e al fratellino di cinque anni, e sepolto a Kobane. E c’è un’Europa che assomiglia molto a quel sordomuto del Vangelo di Marco, guarito da Gesù: nazioni incapaci di ascoltare il grido che viene da questi popoli che fuggono da guerre, violenze, miseria, persecuzioni; Paesi che chiudono le loro frontiere per impedire questo esodo. Stati incapaci di trovare le parole giuste per dire e dare solidarietà a questi popoli erranti.
Non c’è, invece, un cenno al dibattito in corso nel Vecchio continente su come destinare per quote le migliaia di profughi che sono arrivati sulle spiagge dell’Italia e della Grecia; non parla delle migliaia di uomini, donne e bambini fermati alle frontiere, trattati come merce, marchiati con un numero tracciato con il pennarello sul braccio. Non si sofferma sulla tragedia di coloro che rischiano la vita sui camion o lungo la ferrovia che unisce la Francia all’Inghilterra. Come Gesù con il sordomuto, Francesco sembra quasi prenderci per mano e portarci lontano dal chiacchiericcio di questi giorni e ascoltare, nel silenzio, la voce di coloro che sfidano pericoli di ogni sorta, spinti dalla speranza di un futuro migliore, per loro e per i loro figli. Così come la Parola di Dio, che “ha bisogno di silenzio per essere accolta come parola che risana, che riconcilia e ristabilisce la comunicazione”, ricorda Francesco.
L’episodio narrato nel Vangelo di Marco ci parla di un Dio che non è chiuso in se stesso, ha affermato domenica 6 settembre il Papa all’Angelus, “ma si apre e si mette in comunicazione con l’umanità”. Ci viene incontro, “supera l’abisso dell’infinita differenza tra lui e noi”. È un Vangelo che parla anche di noi. Il pontefice ricorda ancora: “Spesso noi siamo ripiegati e chiusi in noi stessi, e creiamo tante isole inaccessibili e inospitali. Persino i rapporti umani più elementari a volte creano delle realtà incapaci di apertura reciproca: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa… E questo non è di Dio! Questo è il nostro peccato”.
Ecco che, allora, torna l’immagine del sordomuto, cioè di un mondo incapace di ascoltare la voce di donne e uomini che vivono difficoltà e privazioni. Torna quella globalizzazione dell’indifferenza che nel suo primo viaggio, luglio 2013, nell’isola di Lampedusa aveva evidenziato, di fronte alla tragedia di quanti affrontano i rischi di una traversata su imbarcazioni inadeguate e troppo affollate. Già in quell’occasione il Papa aveva invitato a riflettere su un mare diventato un cimitero liquido, su volti di donne, uomini e bambini segnati dalla paura, dalla fame e anche dalla disperazione. Allora risuonò forte l’invito a sostituire la globalizzazione dell’indifferenza, l’incapacità di piangere, con la globalizzazione della solidarietà. Parole che, però, finirono al vento o sulla carta dei giornali. Oggi siamo ancora di fronte a nuove tragedie, non meno eclatanti di quelle vissute due o tre anni fa.
Francesco così si fa voce di questa umanità e lancia il suo appello alle parrocchie, a istituti, monasteri, santuari e comunità religiose, di accogliere una famiglia di immigrati, esprimendo così la “concretezza del Vangelo”; un invito a essere, cioè, “prossimi” dei più piccoli e abbandonati, “dando loro una speranza concreta”. È un gesto che rientra nel cammino che Francesco ha voluto proporre con il Giubileo della misericordia, che si aprirà l’8 dicembre.
È proprio attraverso il battesimo, e quella parola “effatà”, cioè “apriti” in aramaico, che per il Papa si compie il miracolo e “siamo stati guariti dalla sordità dell’egoismo e dal mutismo della chiusura e del peccato, e siamo stati inseriti nella grande famiglia della Chiesa; possiamo ascoltare Dio che ci parla e comunicare la sua Parola a quanti non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo”.