EDITORIALE
Nobel al Quartetto per il dialogo in Tunisia, annuncio di un governo di unità in Libia. Mentre in Siria si combatte e la Turchia vive il dopo-attentato
Mentre dalla Siria giungono i boati di una guerra civile che ormai si è trasformata in un conflitto regionale e dalla Turchia arrivano le notizie dell’atroce attentato che ha ucciso oltre cento manifestanti pacifisti, sulla sponda africana di questo turbolento Mediterraneo sembra che la diplomazia e il dialogo si stiano riprendendo qualche rivincita sulla forza armata. Naturalmente dall’Europa occorre seguire gli sviluppi di quanto sta accadendo, per ovvie e strategiche ragioni politiche, nonché per ragioni umanitarie, correlate alle concrete ricadute che tali avvenimenti potrebbero portare sul piano dello sviluppo (democratico, economico, sociale) di tali Paesi e su quelle delle migrazioni verso l’Europa stessa. Anche di questi temi si farà cenno al Consiglio europeo che si terrà a Bruxelles il 15 e 16 ottobre. Il comitato che conferisce il Nobel per la pace ha dunque premiato quest’anno il Quartetto per il dialogo nazionale in Tunisia, ossia l’alleanza fra il Sindacato generale dei lavoratori, la Confederazione dell’industria, commercio e artigianato, l’Ordine degli avvocati e la Lega per i diritti umani che dal 2013 lavora con tenacia per promuovere la coesione sociale in Tunisia e per portare avanti il processo di democratizzazione iniziato con la caduta di Ben Alì.
L’opera preziosa del Quartetto mostra quanto un dialogo incessante, determinato e serio possa fare la differenza. È in gran parte merito di questo coordinamento se oggi la Tunisia è di gran lunga il Paese che ha fatto più passi avanti da quando hanno avuto inizio le Primavere arabe. Come ha mostrato il feroce attacco al Museo del bardo alcuni mesi fa, esistono forze che vorrebbero far fallire questo processo, ma in Tunisia la società civile è viva e sue parti importanti si adoperano senza clamore per tenerne insieme il tessuto sociale oltre le logiche della politica. In questo, il Paese è stato favorito dall’omogeneità etnica, dal fatto che pur avendo sperimentato decenni di autoritarismo il regime non ha represso del tutto la società civile, dalla forte esposizione al mondo esterno soprattutto grazie agli importanti flussi turistici e infine dal fatto di non essere totalmente dipendente dall’esportazione di materie prime, circostanza che ha portato alla formazione di una realtà economica e sociale più variegata che in altri Stati limitrofi.
Molte di queste caratteristiche mancano nei Paesi della regione, compresa la vicina Libia, da cui però in questi giorni proviene la seconda notizia che fa segnare un punto importante alla politica non violenta e alla diplomazia nei confronti della guerra. A meno di un mese dalla scadenza del suo mandato, il Rappresentante speciale dell’Onu per la Libia, Bernardino Leon, ha annunciato la formazione di un governo di unità nazionale con l’assenso delle delegazioni inviate dai due governi che si contendono in controllo del Paese. Dopo un anno di trattative più volte interrotte, con lunghi periodi di stallo totale, si tratta di un primo passo importante, ma certamente non di un traguardo. I ministri sono stati scelti con grande equilibrio, ma non tutte le fazioni si sentono rappresentate e permangono attori, a cominciare dall’Isis, che lotteranno contro qualunque tentativo di pacificazione.
Portare avanti iniziative diplomatiche efficaci in contesti così frastagliati e violenti come la Libia e la Siria è molto difficile, eppure è indispensabile perché la forza da sola non risolve i problemi, e anzi spesso li aumenta. Essa può essere necessaria per difendersi da chi mira a distruggere ogni tentativo di pace fondato sul dialogo, ma poi serve costruire. La comunità internazionale – a partire dall’Unione europea, “vicina di casa” – deve stare vicina alla Tunisia e agire con maggiore decisione e incentivi più chiari in Libia, dopo che un intervento armato avventato ha contribuito a creare il caos che oggi vi regna.