Congo
L’abbé Leonard Santedi, segretario generale della conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo (Cenco) spiega il senso della campagna “Investissons dans la paix” lanciata di recente dalla Chiesa cattolica insieme a numerose altre confessioni religiose, comprese le comunità islamiche
“Se le popolazioni non si parleranno, se non avranno un progetto comune, allora finiranno inevitabilmente con l’odiarsi, col gettare i semi della guerra”. È così che l’abbé Leonard Santedi, segretario generale della conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo (Cenco) spiega il senso della campagna “Investissons dans la paix” [Investiamo nella pace, ndr], lanciata di recente dalla Chiesa cattolica insieme a numerose altre confessioni religiose, comprese le comunità islamiche locali.
Mobilitazione locale. “Investire nella pace”, se si guarda agli ultimi decenni di storia della Repubblica democratica del Congo, può sembrare un augurio difficilmente realizzabile. Da un ventennio le regioni dell’est del paese sono attraversate da una moltitudine di gruppi armati, scontri e violenze, che hanno avuto il loro picco nella cosiddetta “Grande guerra africana”. Tra 1998 e 2003 questo conflitto coinvolse, oltre alle milizie, gli eserciti di sette nazioni africane. E anche dopo la fine ufficiale delle ostilità la popolazione non ha smesso di essere colpita. “Come testimoni del grido del popolo che arriva dai campi dei rifugiati e dalle famiglie sfollate a causa del conflitto – continua dunque l’abbé Santedi – abbiamo deciso di lanciare questa campagna”. In uno scenario dove spesso le questioni di politica internazionale hanno bloccato gli sforzi per arrivare alla fine delle ostilità e contribuito alla sofferenza dei civili, “investire nella pace” significa provare a partire da un altro livello. Quello delle comunità locali, dove verranno inviati mediatori, che aiutino a risolvere le dispute attraverso un’azione di prevenzione, sensibilizzazione e l’indicazione di alternative pacifiche.
Inizialmente, saranno quasi 1.500 gli operatori convolti, due per ogni realtà territoriale locale, ma il loro numero, negli auspici dei promotori, è destinato a crescere.
“L’approccio fondato sull’educazione e sul dialogo – testimonia infatti il segretario generale della Conferenza episcopale – è un laboratorio che ci permette di avanzare sulla strada giusta, perché la pace deriva da questo, dall’andare oltre il conflitto, dal non rispondere ad esso con le armi”.
Andare alle radici. Placare i contrasti a livello locale, per evitare che degenerino in una guerra in cui si muovono forze ben più grandi e pericolose, è un compito essenziale, prosegue il sacerdote. “Le popolazioni locali sono già coinvolte in quel che accade – racconta – e soprattutto i giovani vengono arruolati dai gruppi armati che li portano a commettere abusi: ecco quindi che nasce il risentimento e la spinta ad identificare le milizie con l’una o l’altra comunità”. Una volta che questo succede, l’identità etnica o di clan diventa un’ulteriore arma da usare contro il presunto nemico. “Si sa per sommi capi a quale comunità appartengono i componenti di una certa forza, o chi sfrutta le risorse naturali – testimonia l’abbé Santedi – e allora facilmente tutte le persone di quella comunità, anche quelle pacifiche, che non condividono la logica dei gruppi armati, sono considerate responsabili, ed escluse o respinte. Così si smette di parlare e di lavorare assieme e si creano quei germi che forse, domani, dei politici o dei gruppi armati sfrutteranno, accendendo il fuoco del conflitto: è per questo che siamo voluti andare alle radici di questa violenza”.
Preoccupazioni elettorali. Il compito intrapreso dai rappresentanti delle confessioni religiose (con l’appoggio finanziario del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) è ancora più urgente in questi mesi, in cui si sta mettendo in moto con fatica un processo elettorale destinato a sfociare, a novembre 2016, nel voto per le presidenziali. Un appuntamento a cui sia la società civile che l’opposizione guardano con attenzione, temendo che il presidente in carica, Joseph Kabila, arrivato alla fine del suo secondo mandato, voglia prolungare la sua permanenza al potere facendo slittare l’appuntamento con le urne. Il rinvio a data da destinarsi delle consultazioni locali del 25 ottobre ha già fatto crescere le tensioni. “Il nostro invito – conclude l’abbé Santedi riassumendo le preoccupazioni della Chiesa cattolica e di varie organizzazioni per i diritti umani – è a impegnarsi nel voto, senza cadere nella tentazione della violenza e, per tutti i dirigenti politici, al rispetto dei diritti di libertà”.