Belgio
Il popoloso municipio – uno dei 19 in cui si suddivide la capitale – è abitato da belgi francofoni e fiamminghi e da immigrati di innumerevoli Paesi, molti dei quali maghrebini e mediorientali. I residenti rifiutano l’etichetta di rifugio dei jihadisti e scendono in piazza per affermarlo a gran voce
Una giornata come tante alla Gare de l’Ouest (Station Brussel-West in fiammingo). Vento gelido e cielo plumbeo – frequenti qui a Bruxelles –, i ragazzini vocianti nel cortile della scuola, la signora impellicciata che porta al guinzaglio un collie. Di là della strada due donne, col velo, chiacchierano. Il supermercato Delhaize offre prodotti scontati, mentre il bistrot De Krebbe propone nel menu di mezzogiorno potage e boulettes (zuppa e polpette). C’è tanto cemento e pochi alberi qui a Molenbeek-Saint-Jean. Finito sotto i riflettori dei media di tutto il mondo dopo i tragici attacchi di Parigi, il popoloso municipio brussellese, non lontano dalla Grand Place, rifiuta l’etichetta di “covo terroristico” e prosegue il tran-tran quotidiano.
Un municipio “normale”. Se i giornali non avessero raccontato del lungo elenco di giovani, con nomi arabi, che qui hanno progettato attentati (le bombe di Madrid, la sparatoria al Museo ebraico, il fallito attentato al treno Bruxelles-Parigi, fino alle stragi di una settimana fa nella capitale francese), ci si immergerebbe in una realtà urbana molto simile a mille altre in Europa, tra immigrati di varie nazionalità, fast food americani, kebab turchi e pizzerie italo-egiziane. Lo ripete anche la borgomastro Françoise Schepmans, liberale, donna di grande esperienza politica: il suo è un municipio “normale”, dove “convivono belgi e immigrati” (il vicesindaco si chiama Ahmed el Khannouss). Ma – ammette, anzi invoca – ci sarebbe grande bisogno “di una maggior presenza della polizia”. Quasi 100mila abitanti, Molenbeek in effetti ha le dimensioni di una media cittadina europea, pari a Roubaix, Santiago di Compostela oppure Ancona. Si passa dai quartieri con le villette monofamiliari e i suv parcheggiati davanti ai garage alle abitazioni “popolari” di Chaussée de Gand. I tre palazzoni schierati attorno al Boulevard Louis Mettewie contano 25 piani con otto ingressi ciascuno: dei veri e propri villaggi verticali.
Tra le moschee una chiesa chiusa. Su Rue de Ninove spiccano le luci di Natale, non lontano la “Argana patisserie orientale” ha chiuso i battenti. Quindi altri negozi con scritte in arabo e varie moschee. Poco oltre una chiesa cattolica “fermée”, dove un foglio, attaccato con lo scotch, spiega: “Nel quadro della ristrutturazione della Chiesa di Bruxelles, qui non si celebra più la messa”. Per i fedeli dell’Unità pastorale Scheut-Broeck restano le chiese di Notre-Dame du Sacré-Coeur e quella de l’Assomption. Il tram consente di fare un tour della zona. Così si arriva alla piazza dove mercoledì 18 novembre oltre duemila persone si sono ritrovate, candele alla mano, per intonare canti e affermare, secondo le parole del portavoce del Centro culturale di Rue de l’Ecole: “Noi siamo un comune di pace e di luce e diciamo no alle generalizzazioni e alle stigmatizzazioni che colpiscono Molenbeek. I giornali ci ‘bombardano’, e questo non è certo di aiuto”.
Ancora un blitz della polizia. In Joseph Diongre Straat ci si immerge in un caratteristico quartiere di casette antiche, con porte colorate sovrastate da simboli del lavoro. La pausa in un caffè all’angolo consente di ascoltare le voci degli avventori. La tv, infatti, sta mandando in onda le immagini dell’ennesimo blitz delle forze dell’ordine in un’area di Molenbeek (giovedì 19 novembre), in parallelo a quanto accade in altre zone della capitale, tutte a forte immigrazione maghrebina e mediorientale. Basta dichiararsi giornalista e il proprietario si scalda:
“Non ne possiamo più. Non siamo tutti terroristi qui! Cosa venite a fare?”.
Accanto al mio tavolo un signore anziano alza lo sguardo dal giornale: “Perché non ci mandano i poliziotti anziché i giornalisti?”. Una ragazza bionda, con forte accento fiammingo, aggiunge: “Ieri sera ero in piazza. Abbiamo detto a voce alta che vogliamo solo stare tranquilli. Portino via i terroristi e stop”.
Quanti interrogativi in Belgio. “Impedire le partenze” di giovani verso la Siria, che magari saranno arruolati dall’Isis, “non basta”, sostiene alla stessa ora in Parlamento il primo ministro belga Charles Michel. “Dobbiamo impedire che i foreign fighters tornino nel nostro Paese” e se rientrano “per i jihadisti c’è solo la prigione”. Michel illustra un piano, con fondi per 400 milioni, volto a rafforzare sicurezza, intelligence, polizia, presidio del territorio. Chiuderà, dice, “i luoghi di culto non autorizzati”. Il dibattito pubblico, in Belgio, infiamma: perché – ci si domanda – proprio un Paese piccolo e tranquillo è diventato una centrale terroristica? Perché qui tanti giovani hanno imboccato la strada dell’odio? L’integrazione delle differenze non funziona nella “capitale europea”?
Un piccolo simbolo di pace. Fra i tavoli del bar la discussione va avanti. Finché la televisione annuncia che Abdelhamid Abaaoud, ritenuto il regista degli attentati di Parigi, è stato ucciso nel raid della polizia francese a St.Denis. Il giovane terrorista, spiega lo speaker, è cresciuto, con la famiglia, a Molenbeek, in una casetta di Rue Darimon. “A due passi da qui”, borbotta il proprietario del locale, “dietro la fermata del metro di Comte de Flandre”. Sarebbe la mia meta per tornare in centro città… Uscendo dal caffè, la ragazza sorridendo mi porge un adesivo: è il simbolo della “Molenbeek di pace”.