Terra Santa
Il sogno di “Um George”, vecchia signora 84enne, è di poter vedere un giorno il Papa nella sua terra. I ragazzi che frequentano l’Holy Family School, gestita dal Patriarcato latino di Gerusalemme, testimoniano il loro desiderio di pace e di rinascita. La condanna ferma del terrorismo e la scommessa sullo studio
Ricordano ancora le bombe cadere sopra le loro case e le grida di dolore dei loro amici e parenti rimasti sotto le macerie. Nella mente è forte la memoria dei loro congiunti morti. Non c’è famiglia a Gaza che non abbia avuto un lutto o dei feriti nel corso dell’ultima guerra con Israele, denominata “Margine Protettivo” (8 luglio-26 agosto 2014). Non bastano tre guerre negli ultimi nove anni per affossare i sogni dei giovani della Striscia di Gaza e nemmeno la tensione dell’ultimo mese e mezzo, la cosiddetta “Intifada dei coltelli”, che qui ha provocato 17 morti. Per l’Onu il dato più alto dalla fine dell’offensiva israeliana del 2014.
Resistere studiando. La loro resistenza all’oppressione e alla mancanza di libertà, dovuta anche al blocco israeliano che dura da nove anni, si chiama “studio”. Lo affermano con chiarezza dai banchi della loro scuola, l’Holy Family School, gestita dal Patriarcato latino di Gerusalemme. Una delle tre scuole cattoliche attive nella Striscia, rinomata per l’istruzione che fornisce ai suoi allievi, 647 di cui solo 72 di fede cristiana, al punto che anche i membri di Hamas, l’organizzazione politica che governa la Striscia, ambiscono a iscrivervi i loro figli. “Vogliamo studiare e non combattere” dicono in coro con la sfrontatezza dei loro 15 anni. La stessa che alcuni loro coetanei misero in evidenza alla fine del 2010, un anno dopo la campagna militare israeliana, “Piombo Fuso”, con un manifesto in cui si dicevano stufi di essere dipinti dai media occidentali come potenziali terroristi e fanatici carichi di odio, stanchi dell’indifferenza del resto del mondo. Sono passati 5 anni ma le richieste sono rimaste le stesse.
“Vogliamo resistere studiando – spiega Yasmeen – e vorremmo che il mondo facesse qualcosa per noi. È una questione di umanità. Sappiamo bene che restare a Gaza è difficile ma solo restando possiamo sognare un Paese diverso”.
La sua fede musulmana non le impedisce di vivere e crescere con altri suoi amici cristiani. Come non le impedisce di “condannare fermamente gli attentati terroristici di Parigi”. “Coloro che si sono macchiati di questi gesti atroci sono solo dei terroristi e non hanno nulla a che vedere con l’Islam – dichiara la giovane – prego i media occidentali di non condannarci tutti. Per il gesto di pochi non possono pagare tutti i musulmani. Siamo vicini alle famiglie delle vittime e dei feriti. Conosciamo bene la loro sofferenza per averla provata anche noi durante le guerre degli scorsi anni”. “Noi non siamo terroristi – ripete con voce ferma il suo compagno di classe Walid – ciò che vogliamo è studiare per costruirci una vita migliore. A quei giovani che scelgono di diventare terroristi dico di non farlo. Non diventate strumenti di morte. Quando si uccide qualcuno, a morire con lui sono anche i suoi sogni, le sue idee, quelle che potrebbero rendere il mondo migliore”. “Il nostro sogno – riprende Yasmeen – è completare gli studi e adoperarci per aiutare il prossimo e il nostro Paese a rinascere. Dobbiamo restare uniti senza differenze di fede e idee”. Una vera impresa in una Striscia nella quale, secondo la Banca Mondiale, la disoccupazione supera il 43% il livello più alto del mondo e dove circa il 40% della popolazione vive sotto della soglia di povertà. I giovani, che sono più della metà della popolazione (1,8 milioni), sono i più penalizzati. Molti desiderano emigrare all’estero, Usa in testa, ma uscire dalla Striscia è praticamente impossibile. La piccola parrocchia locale, guidata da padre Mario da Silva cerca di promuovere dei progetti per dare loro lavoro, ma senza riuscire a soddisfare tutte le richieste. “Lo stipendio mensile che diamo – afferma il religioso – è di circa 350 dollari, non molti per il costo della vita della Striscia, ma superiore a quello che viene di solito pagato qui”.
La nonna della Striscia. Chi invece ha smesso di sognare per se stessa è Naima ma nella zona del porto di Gaza, abitata un tempo da molte famiglie cristiane, tutte la conoscono come “Um George”, la madre di George. Dall’alto dei suoi 84 anni si guarda indietro e ricorda un susseguirsi di guerre, specie “quella del 1967”, quando i soldati israeliani fecero irruzione nella chiesa dove si era rifugiata nonostante il parroco di allora avesse issato la bandiera bianca. “Pensavo di morire” dice la donna. Rimasta vedova piuttosto giovane, oggi vive sola in un piccolo appartamento.
“Non vedo mio figlio da 25 anni. So che si trova a Gerusalemme, non ho mai visto i miei nipoti. Non possono venire nella Striscia poiché potrebbero non avere più il permesso per rientrare a Gerusalemme”.
Nessuna notizia nemmeno dalle altre due figlie, una in Giordania e l’altra in Libano. “Passo le mie giornate pregando” racconta l’anziana mostrando un santino tutto stropicciato con l’immagine di Cristo. A prendersi cura di lei sono le suore di Madre Teresa di Calcutta e il parroco, padre Mario. “Aspetto di morire a Gaza – rivela – questo è il posto più bello del mondo, il mare è stupendo. Prima di morire, vorrei che il Papa venisse a Gaza per poterlo vedere da vicino”. Le guerre? “Ne abbiamo una ogni due anni, magari non ci fossero!”. Gli israeliani? Si ferma un attimo a pensare e poi una risposta, da nonna, che è un messaggio ai gazawi più giovani: “In tutti i popoli c’è gente buona e gente cattiva”. Sognare a Gaza è ancora possibile.