Labirinto-Balcani
L’emergenza-profughi attraverso il corridoio balcanico ha riproposto la questione dell’adesione di Belgrado alla “casa comune”. Proseguono i negoziati, ma la Commissione esige – secondo il politologo, membro del Forum per i rapporti internazionali – innovazione politica, amministrativa e sociale. La pressione politica della Russia, l’attrazione esercitata dall’Occidente
“L’attuale crisi dei rifugiati dimostra una volta di più quanto sia cruciale una stretta cooperazione tra l’Ue e i Paesi dell’Europa sud-orientale”: queste parole del commissario europeo Johannes Hahn confermano che la prospettiva europea è fondamentale sia per Bruxelles che per lo sviluppo dei Balcani occidentali tra cui anche la Serbia. Grazie al traguardo Ue, diventato uno degli scopi principali per la politica di Belgrado, sono partite le riforme necessarie in vista dell’ammodernamento del Paese e dell’adesione alla “casa comune”. In Serbia però rimane forte anche l’influenza russa. Ne parliamo con Dragan Janjic, analista politico serbo e membro del Forum per i rapporti internazionali con sede a Belgrado.
L’ultima relazione della Commissione sulla Serbia sottolinea il progresso compiuto verso l’adesione europea. Restano però importanti sfide da affrontare. Quali?
“La Serbia va avanti con lo sviluppo economico, ma bisogna riformare il settore della pubblica amministrazione, riducendo il numero degli impiegati ed eliminando ogni forma di corruzione. Se ne parla da anni, ma non ci sono azioni concrete. Uno dei punti critici è la libertà dei media, anche per via della mancanza di trasparenza su proprietà e finanziamento nel settore. Il fatto che presto Belgrado aprirà i negoziati per i capitoli 23 e 24, dedicati a giustizia e magistratura, dimostra l’approvazione di Bruxelles per l’operato del nostro governo che ha fatto tanti sforzi verso l’adesione all’Unione, suo scopo principale. Per questo si è iniziato con le riforme economiche – molte aziende pubbliche aspettano la privatizzazione – e la normalizzazione nei rapporti con il Kosovo”.
Ad agosto a Bruxelles è stato firmato l’importante accordo con Pristina che prevede maggiore autonomia per le municipalità serbe e alcune concessioni alla comunità albanese. Ma le autorità serbe, la Chiesa ortodossa e buona parte della società rimangono contrari al riconoscimento del Kosovo. Perché?
“È una delle questioni più discusse, dopo la crisi con i migranti. I nazionalisti continuano a considerare il Kosovo come parte integrante della Serbia, anche se tutti sanno che in pratica non è così. Il patto firmato con Pristina a Bruxelles in realtà dimostra che il Kosovo viene trattato come Stato autonomo benché non sia ufficialmente riconosciuto come tale. Negli ultimi mesi siamo testimoni delle proteste dell’opposizione a Pristina contro l’accordo e i serbi aspettano che l’Ue faccia rispettare le trattative concluse. Altrimenti, questo rinforzerà le correnti politiche serbe a favore di un più stretto collegamento con la Russia”.
Infatti, la Serbia va verso l’Ue, ma allo stesso tempo vuole essere vicina e amica anche della Russia. Non è una situazione anomala?
“Se chiedessimo alla gente in Serbia chi è nostro amico, la risposta sarebbe: la Russia. Se domandassimo, però, dove vorrebbero vivere, indicherebbero qualche Paese occidentale. Per la fornitura di gas e benzina Mosca ha il monopolio, ma i nostri rapporti economici e commerciali sono prevalentemente con l’Ue.
Sì, l’influenza russa è forte e le autorità serbe si trovano ‘divise’ tra Mosca e Bruxelles.
Ma non credo che questa situazione possa continuare a lungo perché tutti i Paesi vicini sono orientati verso l’Occidente. In effetti, le autorità serbe sono spinte sia da Bruxelles che da Mosca a dimostrare il proprio orientamento. Belgrado, però, sta tentando di mantenere buone relazioni con ambedue le forze, il più lungo possibile”.
Lei è stato recentemente alla frontiera turco-siriana, in una delle zone dove inizia il viaggio dei profughi. Che cosa ha visto?
“Sono stato a Gaziantep, a 120 chilometri da Aleppo. Lì ci sono molti migranti, ma non si vedono in città, come qui, nel centro di Belgrado. Si trovano nei campi profughi attorno. I giornalisti siriani che ho incontrato chiaramente affermano che in tutto il Paese la situazione è terribile, indipendentemente se sono territori controllati da Assad, dall’Isis o dai ribelli. Ecco perché ci sono così tanti profughi che noi europei dobbiamo accogliere… E non credo che i bombardamenti risolveranno il conflitto: serve un minimo di sicurezza politica ed economica per la gente normale, così da restare nella propria terra”.