Pressioni nazionaliste

Su Schengen e Brexit torna l’Europa “à la carte”. Ipotesi debole al posto di una Ue forte

I flussi migratori dividono i Paesi europei e mettono in allarme le opinioni pubbliche. Gli Stati erigono nuovi muri e tradiscono i trattati sottoscritti in sede comunitaria. Schengen e la libera circolazione dei cittadini messi in pericolo con i controlli alle frontiere imposti da Danimarca e Svezia. E Cameron, da Londra, aggiunge altre crepe alla “casa comune”

Bruxelles, 6 gennaio: minivertice su Schengen fra Commissione Ue e rappresentanti di Germania, Svezia e Danimarca (Ole Schroder, Morgan Johansson, Inger Stojberg, Dimitris Avramopoulos)

È la solita litania: “Serve una soluzione europea”. Ma appena l’Europa propone una complessiva strategia per far fronte alle pressioni migratorie, gli Stati aderenti si sfilano. Ogni Paese intento a difendere il proprio interesse e a proteggere (peraltro con modestissimi risultati) i confini nazionali. Ogni governo in balìa dell’opinione pubblica nazionale, preoccupata dall’“invasione migratoria” tenuta costantemente in prima pagina, spesso con accenti eccessivi, dai media francesi e britannici, svedesi e sloveni, italiani, spagnoli o tedeschi.

Così l’Ue anziché unirsi per una risposta comune si divide innalzando nuovi muri

e contestando quelle regole che gli stessi Paesi aderenti all’Unione europea hanno scritto e sottoscritto. L’Ungheria alza il filo spinato, Croazia e Slovenia seguono a ruota. Grecia e Italia cercano di far fronte – lasciate quasi sole dinanzi all’emergenza-profughi – agli sbarchi dal mare e agli arrivi da Africa, Siria e Turchia. La Francia, segnata dagli attentati del 13 novembre, è spaventata da un terrorismo che sembra pescare reclute nei quartieri ad alta densità di immigrati; il Belgio, intimorito, mette in piazza la polizia. I Paesi dell’est, Polonia in testa, si guardano bene dal tendere la mano, trascurando il fatto che proprio dall’Europa orientale si sono mosse, dopo la caduta della Cortina di ferro, centinaia di migliaia di persone verso l’Europa occidentale. E mentre Danimarca e Svezia, nazioni sorelle dal dopoguerra, ripristinano i controlli alle frontiere, la Germania, il Paese che non si è risparmiato sul versante dell’accoglienza, scopre che la cittadinanza comincia ad avere paura dello “straniero”: e gli orribili fatti di Colonia sembrano dar ragione a chi lancia l’allarme.
L’incontro a Bruxelles, convocato d’urgenza il 6 gennaio dalla Commissione per mettere allo stesso tavolo Danimarca, Germania e Svezia, non ha sortito effetti concreti, salvo ribadire, e non è poco, che le misure restrittive e i controlli dei documenti alle frontiere “sono da considerarsi temporanei”, e dovranno essere rimossi il prima possibile, mentre è stato ribadito il principio del Trattato di Schengen, ovvero la libera circolazione dei cittadini europei all’interno dell’Ue. Dimitris Avramopoulos, commissario all’immigrazione, ha ricordato – non solo ai presenti, ma a tutti gli Stati membri – alcune essenziali priorità: il rispetto dei trattati e delle regole comuni; il controllo delle frontiere esterne (il messaggio è indirizzato principalmente a Italia e Grecia, per l’attuazione degli hotspot e il riconoscimento dei migranti in arrivo); il funzionamento dei ricollocamenti. Su questo terzo punto è palese che l’accordo “europeo”, sottoscritto dai capi di Stato e di governo e da attuarsi sotto l’egida della Commissione, non sta funzionando: dei 160mila trasferimenti promessi ad Atene e Roma ne sono stati attuati 272, e precisamente 82 dalla Grecia e 190 dall’Italia. Tali ricollocamenti dovrebbero avvenire mediante una disponibilità volontaria: e qui si scopre che i Paesi dell’Unione meno esposti agli sbarchi dal mare o agli arrivi via terra dei profughi non sono affatto solidali con gli avamposti mediterranei nel Vecchio continente.
Così un accordo fondamentale come Schengen viene messo in discussione, mentre il Regolamento di Dublino (il quale stabilisce che il Paese di approdo è responsabile della richiesta d’asilo del migrante), palesemente inadeguato ad affrontare la realtà, non viene rivisto alla luce di quanto sta avvenendo nell’Europa meridionale e balcanica.
Se i trattati e gli accordi sono alla mercé del colore politico dei governi e degli umori delle opinioni pubbliche diventa impossibile non solo proseguire il “sogno” europeo, ma, più concretamente, diventa un miraggio ogni azione comune per fronteggiare le enormi sfide del tempo presente.

Se l’Europa manca sulle migrazioni, sarà pure un fantasma al momento di realizzare un vantaggioso mercato unico capace di creare benessere e occupazione, di rispondere alla concorrenza economica dei grandi competitori mondiali, di serrare i ranghi contro l’Isis e il terrorismo, di proteggere i consumatori, di dar vita a una “unione dell’energia” al passo con i tempi, di negoziare un vantaggioso accordo commerciale con gli Stati Uniti, di dare ai giovani una formazione culturale e professionale moderna e intrnazionale, e così via.
In questo senso gli esempi negativi si moltiplicano. Ne dà un ulteriore conferma il mercanteggiamento avviato dal premier inglese Cameron per una “riforma” dell’Ue e dei suoi trattati che abbia i connotati imposti da Londra. Il referendum voluto dai Tories per chiedere ai sudditi di Elisabetta se intendono restare nell’Unione oppure lasciare la “casa comune” (Brexit) da una parte potrebbe rappresentare un giusto stimolo per rivedere alcune incongruenze comunitarie; ma la partita a scacchi imposta da Cameron sembra marciare nella direzione dell’Europa “à la carte” che, di fatto, tradisce l’intero processo di integrazione, rischia di innescare altri atteggiamenti disgregativi e, soprattutto, non appare all’altezza degli scenari economici e politici imposti in questo 2016, che già si intravvede assai problematico.