L'Acec e le "sale perdute"
Il regista, sceneggiatore e produttore bolognese, intervistato dall’Acec in vista della manifestazione Old Cinema Brescia promossa con il Comune e molti altri partner locali e nazionali. La rassegna, lunga un anno, trasforma la città in una sala a cielo aperto attorno al tema delle “sale perdute”. Si parte la sera del 29 gennaio nella sala della comunità Sant’Afra, nel cuore del centro storico di Brescia, con Pupi e Antonio Avati. I due fratelli interverranno per una conversazione dedicata al “genius loci” del cinema, esplorato nel suo intreccio col territorio e l’innovazione tecnologica
“Era il 1951, l’Italia usciva dalla guerra, a Bologna c’era un’aria frizzante pre-boom, io avevo 13 anni, Lucio otto. Io vidi lui, lui non vide me. Assistevo a uno spettacolino in un teatro parrocchiale e Lucio era la star. Era il bimbo più bello, minuto e proporzionato che avessi mai visto. Portava il frac, il cilindro e ballava il tip tap, suonando la fisarmonica. Da solo, riempiva il palco. Provai ammirazione mista a invidia. Ero anch’io ancora un bambino”.
Sono i ricordi di Pupi Avati del carissimo amico Lucio Dalla nati dall’incontro in una sala della comunità, un tempo cinema parrocchiale. A 75 anni, dopo una lunga e ricca carriera da regista, sceneggiatore e produttore, Avati ritorna in una sala della comunità in occasione della manifestazione Old Cinema Brescia promosso con il Comune ospitante e molti altri partner locali e nazionali. La rassegna lunga un anno che trasforma la città in una sala a cielo aperto attorno al tema delle “sale perdute” si aprirà nella serata del 29 gennaio nella sala della comunità Sant’Afra, nel cuore del centro storico di Brescia, con Pupi e Antonio Avati. I due fratelli interverranno per una conversazione dedicata al “genius loci” del cinema, esplorato nel suo intreccio col territorio e l’innovazione tecnologica. L’Acec ha sentito Pupi Avati proprio nelle ore che hanno visto mancare l’amico e collega Ettore Scola.
Abbiamo perso un cuore grande del cinema italiano: un suo ricordo di Ettore Scola…
Perdere Scola per me significa il venire meno di una persona che ad un certo punto della mia vita mi ha incoraggiato a fare questa professione. E’ accaduto in un momento in cui probabilmente avevo bisogno di un segno da parte di chi faceva già questo mestiere con autorevolezza. Scola mi aiutò a capire che la mia scelta non era ancora una volta sbagliata. Io venivo già da un disastro nel senso che avevo già dedicato molti anni della mia vita alla musica senza avere combinato granché. Scola, Monicelli e Fellini, ma soprattutto i primi due, mi dimostrarono che avrei dovuto continuare e lo fecero responsabilmente. Al di là del fatto che Scola fosse autenticamente ideologizzato perché aveva la passione della politica e io non l’ho mai avuta, fra come racconto io e come racconta lui ci sono molti punti in comune nell’approccio verso l’uomo, nella tenerezza nei riguardi dell’essere umano. E questo lo diceva lui.
Pupi Avati ospite d’onore di Old Cinema Brescia: lei figlio di un antiquario ci invita e accompagna a riflettere sull’anima degli oggetti e dei luoghi. La sua tradizione famigliare quanto incide in questo suo sentire e nel dare un nuovo senso a luoghi che sembrano trascorsi?
Ho perso presto mio padre ma quando ero ragazzino. Ricordo che mi alzavo alla notte per fare pipì e vedevo la luce del suo studio ancora accesa. Lo spiavo mentre guardava per ore un quadro che aveva acquistato. Il dialogo, l’interlocuzione che avveniva tra quel dipinto e mio padre mi sfuggiva, mi era misteriosa. Col tempo ho capito quale valore sacrale, religioso, di preghiera possa avere l’attesa, lo sguardo, l’attenzione nei confronti della bellezza che può scaturire dalla pittura, dalla poesia, dalla musica… E’ un atteggiamento di riconoscenza. Il gioire di mio padre è stata la lezione misteriosa, mai espressa con parole, mai codificata con una forma di comunicazione ma che io ho recepito e trasferito probabilmente anche sul set quando chiedo ad un’immagine di darmi l’emozione che si avvicina alla commozione intensa di mio padre. Oggi rivedendo certe cose transitate nella vita mia e sua, mi accorgo che mi infondono questo tipo di suggestione.
E rispetto alle sale perdute?
Le sale cinematografiche avevano quella bellezza perché avevano quel pubblico specifico. Erano frutto del triangolo amoroso tra la bellezza della sala, quello che poteva rappresentare il cinema dell’essere umano di quel tempo (sempre un vero evento) e quel pubblico che ancor prima di sedersi al cinema aveva già l’idea che si sarebbe divertito. A noi il cinema piaceva tutto. Qualcosa poteva piacerti meno o di più, ma era veramente una navicella che ti portava altrove. Eravamo capaci di essere così ingenui. Ora è impossibile restituire la sala a quella medesima ingenuità, a quella predisposizione al divertimento che oggi non c’è più. Ci sono i grandi fenomeni come Zalone ma non sono così totalizzanti come li vivevamo noi un tempo. In quest’epoca la gente fa fatica a divertirsi.
Riportare a galla sale dismesse o congelate: l’Acec ogni anno vede aumentare il numero di sale della comunità che riaprono i battenti. A cosa non può rinunciare una sala per superare la sua finitezza architettonica, il suo limite logistico? Dove trova l’anima che la rende imperitura?
Sono alcuni anni che non sono più lo spettatore cinematografico assiduo che ero un tempo ma ho sempre pensato che una sala cinematografica deve avere un’identità. E’ come la libreria che ha perduto il suo senso nel momento in cui in tutta Italia, ovunque tu vada, trovi sempre gli stessi libri. Un tempo già dai primi scaffali e da come erano stati posizionati i libri, potevi desumere la sua identità. Nella sala questa proposta identitaria è rappresentata dalla tipologia di programmazione. Ciò che programmo non può riflettere solo il box office, dovrebbe essere il frutto di una selezione per cui si “confida” in quella sala. Ricordo alcune sale cinematografiche a Roma e soprattutto a Bologna dove non si sono mai fatti film brutti. Può sembrare incredibile ma diventavano luoghi di garanzia di qualità. Mi auguro che nelle sale del circuito Acec ci sia come prerogativa questa reciproca fiducia e confidenza sulla programmazione tra chi gestisce la sala e il pubblico. Ciò aiuta a non rimanere ostaggi dell’audience e ad uscire di casa perché sai che lì troverai sempre bei film.
La manifestazione ideata dal progetto nazionale Old Cinema prosegue fino a dicembre 2016 con Giuliano Montaldo, Massimo Cacciari, Giordano Bruno Guerri, Gherardo Colombo, Mario Botta ed Ettore Mo. L’ospite d’onore è Carlo Verdone per una rilettura inedita del suo dna cinematografico: il rapporto del regista e attore romano con il padre Mario, critico e docente di cinema, un genius loci artistico e familiare. Protagonista di una masterclass e di un incontro col pubblico sarà il regista cult americano Abel Ferrara.