Giornalismo
Formazione, aggiornamento, giovani, osservazione dei nuovi scenari disegnati sul mercato dalle concentrazioni dei media sono tra le priorità dell’Ucsi. A delinearle è Vania De Luca, eletta ieri prima presidente donna dell’associazione. “Mi sento interpellata dalle parole del Papa sullo sguardo diverso che le donne hanno sulla realtà”, confida. La Rai, aggiunge, deve restare fedele alle proprie origini di servizio pubblico e al proprio Dna. Le concentrazioni editoriali non sono in sé un male se si traducono in sinergie, diversificazione, ottimizzazione
È Vania De Luca, vaticanista di Rainews24, la nuova presidente dell’Unione cattolica stampa italiana (Ucsi). Prima donna a guidare l’associazione nei quasi 60 anni di storia, De Luca è stata eletta il 6 marzo a Matera a larga maggioranza dai delegati, a conclusione del XIX congresso nazionale sul tema “Le sfide del giornalismo al tempo di Papa Francesco”. Succede ad Andrea Melodia che ha completato due mandati consecutivi.
Che cosa significa essere la prima donna presidente?
Si tratta di una responsabilità in più. Nella nostra associazione sono state sempre presenti donne di qualità e di spessore, ma essere la prima presidente rappresenta certamente un inedito. Mi sento interpellata dalle parole del Papa sullo sguardo diverso che le donne hanno sulla realtà perché la guardano da una ricchezza differente. Questo è ancora più vero per le giornaliste, chiamate a coglierne l’essenziale e ad avere, forse più degli uomini, uno sguardo capace di prossimità. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, si può fare informazione anche dietro una scrivania, ma nulla può sostituire la prossimità fisica, lo stare dentro le storie da raccontare. Alcuni miei colleghi hanno seguito i movimenti migratori lungo le rotte che dalle coste dell’Africa portano verso l’Europa, e camminare con questi profughi ha fatto loro cogliere cose che altrimenti non avrebbero afferrato. E’ anche un modo per dare voce a chi non ne ha, ed è quello che in modo esemplare fa il Papa che con la sua sola presenza riesce a rendere centrale ciò che sarebbe periferico. Penso a quello straordinario gesto dell’apertura della prima porta santa a Bangui nella Repubblica centrafricana, o alla sua presenza nel carcere di Ciudad Juárez, in Messico. Una prossimità che offre una chiave di lettura diversa perché si traduce in ribaltamento di prospettiva e opportunità di riscatto. Una grossa sfida per noi comunicatori.
Quali le priorità e le linee d’azione dell’Ucsi?
Il presidente ha certamente un ruolo di guida e di sintesi, ma lavoreremo in squadra. Parole chiave formazione e aggiornamento. Continueremo il cammino in corso con l’appuntamento annuale della scuola di formazione, anche scuola di aggiornamento professionale da quando l’Ordine richiede i crediti formativi obbligatori. Una grande sfida è quella dei giovani che vivono situazioni di precariato strutturale, drammatico non solo per la loro condizione ma anche per l’informazione stessa. Un giornalista precario è difficile che sia completamente libero. Un’ulteriore sfida è il rinnovamento del nostro modo di comunicare ripensando il sito associativo e sviluppando sinergie con i territori. L’Ucsi è tradizionalmente stata una voce libera nel panorama del sistema dei media italiani e di questo si sente a maggior ragione la necessità oggi in uno scenario attraversato ovunque da processi di rinnovamento: Rai, media vaticani, circuito radiotelevisivo della Chiesa italiana. Noi siamo “osservatori”; intendiamo rilanciare l’osservatorio di mediaetica per vedere a quali criteri si ispirano queste dinamiche.
La Rai sta cambiando, come va ripensata la sua mission?
Con la fedeltà alle proprie origini di servizio pubblico e al proprio Dna, per continuare ad essere dalla parte dei cittadini. Un’informazione libera, plurale, che risponda all’esigenza di saper raccontare tutto a tutti secondo l’intuizione di Emilio Rossi, già presidente Ucsi e primo direttore del Tg1. Con i linguaggi più adatti e gli strumenti più adeguati. L’esigenza di fondo deve essere sempre quella di grande libertà ed equidistanza dalle cose. Ho sempre considerato un grande valore del nostro Dna di servizio pubblico quello di avere dietro di noi un editore che in fondo sono i cittadini. Per questo non abbiano problemi di oligopolio.
A proposito di oligopolio, è di pochi giorni fa la notizia della fusione Repubblica-Stampa. Secondo lei, questa concentrazione editoriale che disegna un nuovo scenario sul mercato mette in discussione il modo di essere giornalisti?
Bisogna vedere che cosa succederà nel concreto. Quando c’è una concentrazione bisogna domandarsi quale ne sia la finalità, se a guidare le scelte siano criteri esclusivamente economici in una crisi globale, oppure se ci siano nuove idee. L’oligopolio può voler dire anche differenziazione all’interno di diversi media che fanno capo ad un’unica concentrazione. Non è detto che sia di per sé un limite, può essere anche creazione di sinergie. L’informazione è tanto più precisa e completa quanto più si hanno occhi e persone fisiche sui territori. Bisognerà vedere come verrà declinata a livello di prodotti editoriali questa scelta che può essere anche un’ottimizzazione. La Rai ha tanti canali e tante reti. Uno dei problemi di fondo è diversificare il prodotto: ha senso essere in tanti se c’è una diversificazione, ancorché all’interno di un’unica proprietà.
In che modo sta cambiando il sistema radiotelevisivo?
Io lavoro all’interno di un allnews che penso sia l’avanguardia dei nuovi linguaggi e dei nuovi modi di fare. Oggi si sta procedendo verso un’integrazione sempre maggiore con il web. Oltre al tema della diversificazione, c’è bisogno di trovare nuovi modi di coinvolgere il pubblico perché la qualità del prodotto si misura anche sugli indici di ascolto. Occorre però coniugare fruibilità, appetibilità e capacità di interessare con la scelta della qualità. Anche se attirano il pubblico, programmi commerciali di basso costo e di basso livello non aiutano a crescere la coscienza sociale e civile.