Migrazioni e accordi politici
L’Unione europea tratta con Ankara, promettendo al premier Davutoglu denaro e passi avanti per l’adesione alla “casa comune”. Ma commentatori e politici di vari Paesi sollevano dubbi sull’affidabilità del Paese guidato, col pugno di ferro, dal presidente Erdogan
Per alcuni è un “assegno in bianco”. Altri parlano di “do ut des”. Oppure di “compromesso al ribasso”, di “ricatto andato a segno”. Le conclusioni del summit tra Ue e Turchia del 7 marzo continuano a sollevare critiche, obiezioni e distinguo. I capi di Stato e di governo dei 28, riuniti a Bruxelles, hanno accolto, fra sorrisi e pacche sulle spalle, il premier di Ankara, Ahmet Davutoglu, che agisce sempre in assoluta sintonia con il presidente Erdogan. Del resto la Turchia è un partner irrinunciabile dell’azione europea sul fronte migratorio: il gigante euroasiatico ospita quasi 3 milioni di rifugiati, e si colloca al confine tra un Medio Oriente in fiamme e un’Europa, mediterranea e balcanica, provata dagli arrivi di profughi.
“Scambi di quart’ordine”. Ulteriori decisioni Ue sull’emergenza migratoria e nei rapporti con Ankara sono state rinviate al Consiglio europeo del 17-18 marzo: ma sin da ora il governo turco ha alzato la posta, chiedendo non più i 3 miliardi già promessi dall’Ue come aiuto finanziario per l’azione umanitaria, bensì il raddoppio della cifra; ha inoltre ottenuto promesse più o meno formali circa l’accelerazione dei negoziati per l’adesione all’Ue e la liberalizzazione dei visti entro pochi mesi. Nella Dichiarazione finale del Consiglio europeo si legge che “la Turchia ha confermato il suo impegno ad attuare l’accordo bilaterale greco-turco in materia di riammissione al fine di accettare il rapido ritorno di tutti i migranti non bisognosi di protezione internazionale che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alla Grecia”.
L’impegno è “far sì che, per ogni siriano che la Turchia riammette dalle isole greche, un altro siriano sia reinsediato dalla Turchia negli Stati membri dell’Ue”.
Do ut des? “Questo è un baratto”, sbotta Guy Verhofstadt, già premier belga, ora capogruppo dei Liberaldemocratici al Parlamento europeo. “È un ‘do ut des’ che non possiamo accettare. Davutoglu è venuto a dirci: o ci date i visti o non muoviamo un dito per accogliere i profughi; o acceleriamo i negoziati per l’adesione o non assicuriamo di tenere i siriani nei centri di accoglienza”. Per Verhofstadt “non possiamo solo affidarci” al governo di Ankara.
“È un Paese che non rispetta diritti fondamentali e minoranze… Basti pensare ai curdi”.
L’azione Ue dev’essere, per il politico belga, “a più vasto raggio: dove sono i 160mila ricollocamenti, dov’è la Guardia costiera europea? Dov’è la politica comune di asilo?”. Per non parlare di vie legali per la migrazione e di cooperazione allo sviluppo…
Collaborazione “pragmatica”. Contrario a “staccare un assegno” da 6 miliardi per Ankara è Timothy Kirkhope, conservatore britannico, già ministro dell’immigrazione nel Regno Unito. “Abbiamo bisogno della Turchia come partner importante” nella crisi in atto, “ma non a qualsiasi costo”. “Il denaro promesso va consegnato sulla base di impegni chiari ed erogato” un po’ per volta “in relazione a risultati” verificati. Soldi che devono andare ai rifugiati, non all’esercito o alle repressioni delle minoranze. Si inserisce su queste osservazioni Manfred Weber, capogruppo dei Popolari a Strasburgo, ritenuto persona di fiducia della cancelliera tedesca Angela Merkel. Dunque “nessun regalo” ad Ankara, trattative serrate, a partire dai “principi fondamentali dell’integrazione europea”: l’elenco si dipana tra democrazia e diritti, “compresa la libertà di stampa”, accoglienza realmente “umanitaria” dei rifugiati, collaborazione per la stabilità politica della regione mediorientale.
Weber insiste: “La libertà di espressione non si può negoziare. Se la Turchia vuole fare dei passi verso l’adesione all’Ue deve rispettare tutti i diritti fondamentali” inscritti nei trattati europei.
Ma la Merkel è appena stata in Turchia: ha steso un “tappeto rosso” sotto i piedi del “sultano”? “La Turchia è una medaglia a due facce”, osserva il capogruppo Ppe. “All’interno si allontana dall’Unione europea”, con le repressioni dei giornali e delle minoranze, “il venir meno della divisione dei poteri” e l’ingerenza dell’esecutivo sulla magistratura; sul piano internazionale, invece, “sta accogliendo da un anno milioni di profughi, a proprie spese, e ora necessita di sostegno”. Inoltre “Ankara è un partner di primo piano per la sicurezza, l’economia, l’energia. Serve dunque una collaborazione pragmatica”.
Garantire diritti e minoranze. Il capogruppo dei Socialisti e democratici, Gianni Pittella, italiano, conferma la distanza che separa il Consiglio europeo, dove siedono i capi di Stato e di governo dell’Ue, dal Parlamento riunito in questi giorni a Strasburgo per la plenaria.
“Diciamo no a un accordo con la Turchia senza l’impegno a garantire i diritti umani e le minoranze”
e a sua volta cita il Kurdistan. “Non ci sta bene neppure questo scambio tra accoglienza dei profughi e mercanteggiamento su visti e negoziati per l’adesione all’Unione. E poi c’è la questione di Cipro”, con metà dell’isola occupata da forze militari turche. “No ai baratti”, ribadisce Pittella. “Sì a una collaborazione piena e rispettosa, nell’interesse reciproco”.