Fine vita
Teologo, per anni vicerettore dell’Università Cattolica di Lovanio, padre Gabriel Ringlet accompagna le persone che fanno richiesta di eutanasia. Della sua esperienza ne ha tratto un libro che è diventato famoso in Europa, soprattutto in ambito cattolico. E alla Chiesa oggi chiede: “Anche se sul piano etico non si è d’accordo, ciò non significa che non dobbiamo essere presenti in questa frontiera”
Padre Gabriel Ringlet è un noto teologo belga. È stato professore e vicerettore dell’Università Cattolica di Lovanio per circa 20 anni. Poi una dottoressa del vicino ospedale cattolico Saint-Pierre d’Ottignies lo ha chiamato. Si trovavano di fronte a domande di eutanasia da parte di pazienti cattolici che richiedevano un accompagnamento anche di tipo spirituale. Lui ha accettato. E da allora la sua vita è cambiata. Assiste e accompagna persone fino all’eutanasia e della sua esperienza ne ha fatto un libro: “Vous me coucherez nu sur la terre nue” (“Mi sdraierete nudo sulla terra nuda”) che sta avendo un successo editoriale inaspettato, soprattutto in ambito cattolico. Sue interviste appaiono su La Croix, La Vie, Le Pelerin, Radio Notre-Dame addirittura sul sito promosso dalla Conferenza episcopale svizzera, www.cath.ch. Segno di un dibattito sul fine vita per nulla scontato in ambito cattolico. “Nel libro – esordisce padre Ringlet – racconto molto lungamente la storia di un’anziana suora carmelitana, con 60 anni di vita contemplativa, che mi ha chiesto l’eutanasia”.
E alla fine le è stata praticata?
No, perché è stata talmente rassicurata che si è addormentata dolcemente poco tempo dopo il nostro incontro. Ed è proprio quello che cerco di raccontare nel libro. Quando si ascoltano le persone fino in fondo, con un ascolto però incondizionato, senza giudizio, con la promessa di non abbandonare mai, l’eutanasia alla fine non viene praticata. Non sono assolutamente a favore della eutanasia. Ma dico che ci sono delle situazioni di sofferenza, talmente estreme, che non v’è altra soluzione.
Qual è il limite che giustifica l’eutanasia?
La mia risposta è semplice per una questione, invece, estremamente complessa: fin quando la medicina attraverso trattamenti classici come la morfina riesce a placare il dolore. Ma non sempre ci riesce. Ci sono dal 5 al 10% di situazioni in cui la sofferenza è immensa. Quando allora la medicina esaurisce tutte le sue possibilità, in questi casi ci sono due soluzioni: la sedazione palliativa finale ossia la messa in coma del paziente e l’eutanasia. La posizione della Chiesa ufficiale dice sì alla sedazione e no all’eutanasia. Nel mio libro io cerco di far capire che entrambe le decisioni sono gravi e che la sedazione non comporta una morte naturale, perché induce un coma irreversibile con medicamenti che accorciano la vita.
Quindi?
Il paradosso è che nell’ospedale cattolico in cui lavoro, l’eutanasia viene praticata con rispetto e con una preparazione spirituale che richiede anche settimane. Spesso, non dico sempre, ma spesso la sedazione si pratica senza preparazione: il medico convoca la famiglia e comunica che non c’è più nulla da fare e che si addormenta il paziente.
Che cosa chiedete alla Chiesa cattolica?
Una cosa molto semplice. Ho dedicato questo libro ad ogni vescovo belga ed ho avuto con alcuni di loro un profondo dialogo. Quello che chiedo è che si parli di eutanasia serenamente, che ci sia un dibattito vero, libero, aperto alle obiezioni e alle convinzioni l’uno dell’altro. Anche se sul piano etico non si è d’accordo, ciò non significa che non dobbiamo essere presenti in questa frontiera.
Quali emozioni si prova di fronte all’atto di eutanasia?
Sono emozioni terribilmente forti, per tutti. Non ho mai visto un medico compiere un’eutanasia senza esserne profondamente sconvolto.
E lei?
Anche io. In queste condizioni, può aiutare anche una liturgia rituale. Prendo allora la parola, chiedo a ciascun presente se vuole dire qualcosa. Si può suggerire una preghiera, la lettura di una poesia, una unzione di olio. Ci sono tutta una serie di cose da fare perché l’atto non sia ridotto a sola tecnica medica ma un momento di addio che si vive insieme, con il paziente lucido.
Non crede che Dio possa agire anche nell’ultimo tratto di una vita e che noi con l’eutanasia interrompiamo questo rapporto?
Non posso rispondere a questa domanda se non parlando per me. Non posso rispondere per l’altro. Posso dire per me: spero di essere in grado di attraversare una sofferenza estrema se mai dovessi trovarmi in questa situazione. Ma come posso saperlo? Come posso sapere come reagirò? Ho assistito un trappista, che è morto nelle angosce più assolute alla fine di un cancro. Era come se Dio non esistesse più, come se la sua vita contemplativa non rappresentasse più nulla. Questo per dire che ciascuno di noi non può sapere come psicologicamente reagirà al momento della sofferenza.
Quante persone ha accompagnato fino all’eutanasia?
Una decina. Ma aggiungo anche che nel 50% dei casi, la domanda è caduta. Ho vissuto situazioni incredibili. Una donna con un cancro molto grave, madre di 4 figli, con sofferenza grandi. Abbiamo accolto la sua domanda di eutanasia. Era prevista per giovedì. Il sabato sera precedente sono andato a trovarla. Era molto angosciata. Abbiamo parlato lungamente. Abbiamo pregato insieme. E mi ha chiesto: “lei sarà qui giovedì? Sarà qui con me?”. E io le ho risposto di sì. Le ho promesso che non l’avrei lasciata sola e che le avrei tenuto stretta la mano fino alla fine. Quel giorno il figlio mi ha telefonato per dirmi che qualche ora dopo il nostro incontro, sua madre si è addormentata ed è morta. A lei bastava essere rassicurata. Le è stato sufficiente perché si spegnesse naturalmente.
Sta dicendo quindi che bisogna solo avere il coraggio di esserci fino alla fine?
Sì, e considerare che ogni situazione è unica. Mai fare regole generali, mai fare militanza. Non c’è alcun senso. Semplicemente esserci.