Attentati a Bruxelles
Silvio Ferrari, docente di diritto canonico all’Università di Milano, spiega che l’Islam in Belgio è religione riconosciuta dallo Stato dove gli imam si sono dati una Carta di diritti e doveri. Eppure il “sistema” non ha retto e gli attentati del 22 marzo hanno inferto un colpo mortale al processo di convivenza pacifica
Il diritto non basta. Per arginare fenomeni di radicalizzazione e terrorismo occorre agire su più fronti: dai processi educativi alle condizioni sociali e al coinvolgimento delle stesse comunità religiose, chiamate a “fare barriera a fenomeni interni di violenza in nome di Dio”. Il “caso Belgio” deve quindi diventare un monito. Sono passati solo pochi giorni dal doppio attentato di Bruxelles e si stanno stilando i primi bilanci sulla dinamica di quello che è successo, sui possibili errori e sulle eventuali cause.
Tutti alla ricerca di un “perché” che per il momento rimane una domanda sospesa.
“In Belgio le comunità religiose riconosciute godono di un regime giuridico particolare”. Silvio Ferrari è professore di diritto canonico all’Università di Milano ed è uno dei maggiori esperti di legge e religione in Europa. Conosce molto bene la situazione belga dove le comunità religiose riconosciute hanno la possibilità, per esempio, di insegnare religione a scuola e dove gli insegnanti di tale materia sono pagati dallo Stato. Anche gli stipendi dei ministri di culto sono pagati dallo Stato. Tra le religioni riconosciute – ed è un fatto unico in Europa – c’è anche l’agnosticismo. I movimenti di spiritualità laica sono parificati alle comunità religiose con loro insegnanti e funzionari pagati dallo Stato.
L’islam è una delle religioni riconosciute. Sul fenomeno islamico in Belgio hanno pesato una serie di questioni, oggi abbastanza superate. La prima è la frammentazione della comunità musulmana che ha reso difficile individuare una organizzazione rappresentativa che potesse fungere da controparte con lo Stato. “Hanno tentato di risolverlo per via democratica – ricorda il professore – incoraggiando le comunità musulmane a eleggere i propri rappresentanti in un organismo nazionale. Queste votazioni hanno portato venti anni fa a eleggere rappresentanti radicali, per cui gli organismi eletti dai musulmani sono stati poi sciolti dalle autorità del Belgio”. Alla fine di un lungo processo, con alti e bassi, oggi in Belgio c’è un organismo rappresentativo musulmano che funziona da controparte. È l’Exécutif des Musulmans de Belgique.
L’esecutivo si è dotato di una “Carta del ministro del culto islamico” dove sono elencati diritti e doveri.
Spetta al Consiglio dei teologi dare il parere definitivo per la valutazione e la designazione di un imam, che è tenuto a osservare una serie di regole: i suoi sermoni non devono andare contro la “Costituzione e le leggi del popolo belga”; deve avere un comportamento conforme ai valori dell’Islam, dentro e fuori alla moschea; deve astenersi da ogni forma di incitamento all’odio e favorire invece il valore del “vivere insieme” nella società belga.
Purtroppo però c’è una falla nel sistema. “Come anche in Francia e in altri Paesi – rileva Ferrari – questi organismi creati su incoraggiamento dello Stato non sono ritenuti pienamente credibili e rappresentativi da una parte della comunità musulmana, secondo la quale lo Stato belga o francese si è creato una controparte musulmana moderata che in realtà non li rappresenta perché è scesa troppo a patti con uno Stato laico e secolare che non rispetta veramente la libertà di religione. Questo è il limite e la strada fino a oggi battuta ha dato sì esiti positivi, ma non determinanti”. Per avere risultati decisivi occorre allora allargare il discorso, avviare processi educativi, lavorare sulle condizioni sociali.
“Il diritto può fare la sua parte ma è pur sempre una parte abbastanza limitata”.
Ferrari si dice preoccupato per le direzioni che si stanno delineando all’orizzonte. “Si rischia di strumentalizzare per fini politici il discorso dell’identità cristiana dell’Europa in funzione di logiche di chiusura con persone di altre religioni, con il reale pericolo di una saldatura tra religione e nazionalismo che vediamo, per esempio, nell’Europa orientale”. Una strada che invece quasi sicuramente imboccheremo è quello di “un maggior controllo – giustificato dalla sicurezza – sulle religioni e un maggior intervento dello Stato nelle questioni interne alle comunità religiose”. Si aprirà, quindi, nell’immediato futuro “un orizzonte difficile”. Prima di concludere, il professore vuole fare una precisazione e richiama “la responsabilità delle religioni per il loro ritardo nel dialogo interreligioso negli ultimi anni. Un dialogo più che mai necessario per fare barriera ai fenomeni religiosi interni di violenza in nome di Dio”.