Immigrazione
Per i migranti che non riescono a trovare la strada dell’integrazione in Italia, o per chi è in difficoltà per altre ragioni, esiste la possibilità dei “ritorni volontari assistiti” finanziati oggi dal Fondo asilo migrazione e integrazione. In sei anni circa 4.000 persone sono tornate nel proprio Paese, altre 3.000 – entro marzo 2018 – potranno essere aiutate con contributi economici e accompagnamento personalizzato. L’esperienza del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati: con il progetto “Integrazione di ritorno 3” sta accompagnando 270 persone. Le storie di successo, in un trend di aumento
Tra i migranti in Italia c’è chi arriva e chi ritorna. E’ già da tempo, infatti, che a causa della crisi economica ed occupazionale molti residenti immigrati di lunga data decidono di fare le valigie e tornare a casa. Si parla di circa 200mila persone cancellate dall’anagrafe della popolazione residente in Italia. Per chi non ha la possibilità economica di ricostruirsi una vita nel Paese di origine in maniera autonoma, da alcuni anni sono attivi dei programmi europei che finanziano i cosiddetti “ritorni volontari assistiti”, aiutando cioè le persone al reinserimento socio-economico con contribuiti economici ed accompagnamento personalizzato. In sei anni, dal 2009 al 2014, grazie al Fondo europeo rimpatri, dall’Italia sono partite 3.919 persone. Dopo un blocco di un paio di anni l’Ue ha finanziato un nuovo Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami 2014-2020), per 3.000 nuovi posti da giugno 2016 a marzo 2018, in diversi programmi di ritorni volontari assistiti. Tra i soggetti che se ne occupano c’è il Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati: con il progetto “Integrazione di ritorno 3” sta accompagnando 270 cittadini provenienti da Colombia, Ecuador, Perù, Ghana, Marocco, Nigeria e Senegal. In passato ha seguito 101 persone.
Il trend dei ritorni volontari assistiti è dunque in aumento ed in linea con la tendenza generale a lasciare l’Italia.
Uno strumento utile per chi non trova integrazione. “La novità di questo nuovo bando – spiega Valeria Carlini, ufficio stampa e coordinatrice del progetto ‘Integrazione di ritorno’ – è l’apertura anche a chi ha il permesso o la carta di soggiorno, oltre a chi ha ricevuto il diniego e gli irregolari, ai quali si dedica comunque grande attenzione. I ritorni volontari possono diventare sempre più uno strumento di sostegno utile a quanti non trovano la strada di integrazione che cercano”. Inoltre, aggiunge, “se fatti bene, i ritorni volontari assistiti rappresentano una sorta di aiuto allo sviluppo per l’economia del Paese di origine”.
Le persone che possono usufruire della misura vengono segnalati dalle associazioni e dalle comunità sul territorio. Il programma mette a disposizione servizi di orientamento, assistenza sociale e legale negli sportelli Cir di Roma e Milano, assistenza per l’organizzazione del viaggio e un contributo economico di 400 euro a persona per le spese di prima necessità.
I piani di reintegrazione nel Paese di origine sono realizzati in partnership con organizzazioni non governative (il Cir collabora con Oxfam, Cisp, ProgettoMondo-Mlal). Sono a disposizione 1.600 euro in beni e servizi per singoli o capifamiglia, più 800 euro per ogni familiare maggiorenne a carico e 480 euro per ogni minorenne. Ma come evitare il rischio che qualcuno approfitti dell’opportunità economica anche se non ne ha realmente bisogno? “Chi sceglie questa strada deve lasciare il permesso di soggiorno alla frontiera – precisa Carlini -. E’ una scelta definitiva: non è che dopo due mesi si può tornare in Italia”.
Le storie di successo: la parafarmacia della coppia peruviana. Tra le esperienze di successo, molte delle quali raccolte in un report, quella di una coppia di peruviani, tra i 40 e i 50 anni, entrambi infermieri. Manuel (sono nomi di fantasia) è arrivato in Italia nel 2009 per motivi di lavoro: le agenzie di collocamento peruviane gli avevano anticipato il denaro per il viaggio, il vitto, l’alloggio e il corso di italiano, per poi rientrare dell’investimento trattenendo i primi stipendi guadagnati. In Italia ha lavorato subito come infermiere a Cagliari, in una casa di cura. Poi a Como, in una residenza per persone disabili. Manuel ha imparato subito l’italiano e acquisito nuove competenze professionali. Maria è arrivata in Italia l’anno dopo, e ha lavorato in una casa di riposo a Padova e in alcuni ospedali. Ma negli ultimi anni, a causa della crisi, non riusciva più a trovare un impiego. La coppia è costretta ad occupare una casa popolare sfitta, dove vivevano insieme alle due figlie. Gli unici aiuti erano quelli del Banco Alimentare e della Caritas. All’inizio lei riusciva a mandare i soldi ai familiari rimasti a casa. Ma negli ultimi tempi accadeva il contrario. In Italia la vita comincia a diventare troppo dura: decidono di tornare a casa per garantire un futuro migliore alle piccole, che hanno meno di due anni. Il sogno di aprire un’attività commerciale nel settore sanitario nella loro città, Juliaca, si realizza in breve tempo. Arrivano in Perù nel maggio di quest’anno e riescono ad avviare una parafarmacia, con servizi infermieristici privati, a pochi passi da casa.
Una nuova vita in Ghana a 68 anni. John, 68 anni, è arrivato dal Ghana nel 2007, dove ha lasciato moglie e cinque figli. Quando viene segnalato al progetto è stanco di vivere in Italia, senza prospettive lavorative e lontano dai suoi affetti. La sua permanenza è stata molto dura ed ora si trova in condizioni di estrema difficoltà economica: vuole ritornare nel suo Paese per ricongiungersi con i suoi familiari e contribuire al benessere familiare. In Ghana vorrebbe gestire insieme alla moglie una struttura in cui vendere al dettaglio abiti usati. Lei è felice di riaccoglierlo e di ricominciare una nuova parte di vita insieme. Il 22 maggio 2015 John ha felicemente riabbracciato la sua famiglia. Oggi gestisce a Kumasi un negozio con la moglie, coinvolgendo anche i figli, per garantire loro un futuro. Il contributo del progetto è stato utilizzato per acquistare la merce e trasportarla da Accra a Kumasi. La presenza di una forte rete familiare è stata essenziale per il successo del progetto.
Ritorno in Ecuador, in fuga dal compagno violento. Non mancano le storie di vulnerabilità, come quella di Imelda, arrivata in Italia nel 2009 lasciando in Ecuador due figli. Ha lavorato come badante, operaia, addetta alle pulizie, cameriera, cuoca in un ristorante. Ha anche trovato un nuovo compagno da cui ha avuto un bambino. Ma l’uomo si è purtroppo rivelato violento e Imelda è finita in ospedale diverse volte prima di riuscire a separarsi. La situazione economica si è improvvisamente complicata, ha perso il lavoro, non è più riuscita a sostenere i costi dell’affitto e dell’asilo per il figlio. Si è rivolta al progetto per tornare a casa. In Ecuador, dopo diverse difficoltà d’inserimento, dovute soprattutto alla mancanza di una rete familiare di supporto, è riuscita a stabilirsi in una nuova casa con i tre figli. Ha avviato un’attività di vendita di bibite e alimenti preparati in casa e i ragazzi frequentano tutti la scuola pubblica.