Diritto alla terra

Quei Paesi in cui per la terra si muore: 3 omicidi a settimana, i tre quarti in America Latina

Sono oltre 1.300 nel mondo gli indigeni o attivisti ambientali uccisi per difendere le loro terre dal 2002 ad oggi, una strage silenziosa in drammatico aumento, anno dopo anno. L’anno peggiore è stato il 2015, con 185 omicidi ambientali (+59% rispetto al 2014), tre vittime ogni settimana. La cartina geografica del mondo è macchiata di sangue soprattutto in America Latina (i tre quarti delle morti), Asia e Africa. Ai primi posti nella tragica classifica c’è il Brasile, seguito da Filippine, Honduras e Colombia. Tutto ciò nel silenzio e nella pressoché totale impunità

La terra ci offre il necessario per vivere ma per la terra oggi si muore. Sempre di più. Sono oltre 1.300 nel mondo – le cifre reali sono sicuramente molto più alte – gli indigeni o attivisti ambientali uccisi per difendere le loro terre dal 2002 ad oggi, una strage silenziosa in drammatico aumento, anno dopo anno. E mentre a Roma è in corso l’incontro mondiale dei movimenti popolari, la cartina geografica del mondo è macchiata di sangue soprattutto in America Latina, Asia e Africa. Ai primi posti nella tragica classifica c’è il Brasile, seguito da Filippine, Honduras e Colombia. Sono le aree in via di sviluppo notoriamente prese d’assalto da progetti senza scrupolo di “land grabbing” (accaparramento di terre) a scopi turistici, di sfruttamento agricolo intensivo e deforestazione, speculazione finanziaria, estrazione di minerali e altre risorse, cementificazione, megaprogetti come le dighe che deviano fiumi per creare energia idroelettrica.

Dietro ci sono potenti interessi di aziende multinazionali, governi, società finanziarie, che fanno il possibile perché tutto passi sotto silenzio.

Spesso vengono assoldati sicari o paramilitari per fare il lavoro sporco e togliere di mezzo chi disturba solo perché cerca di difendere il diritto ad abitare la propria terra, comunità che vivono lì da sempre e che amano e rispettano la natura in maniera sacra, perché ne traggono tutto il sostentamento. Il 40% delle vittime, uno su quattro, sono indigeni, le popolazioni più vulnerabili. Ogni tanto, raramente, alcuni di questi omicidi eccellenti balzano agli onori delle cronache, come il caso di Berta Cacéres, la leader indigena honduregna vincitrice del premio Goldman Prize (il Nobel alternativo per l’ambiente), uccisa nella propria casa nel marzo 2016. Testimoni parlano di un coinvolgimento di militari dell’esercito nel suo assassinio: il che non è una vera e propria notizia per chi conosce un po’ i Paesi latinoamericani, che ancora faticano a superare del tutto le dinamiche interne impresse da decenni bui di dittature e repressioni.

Nel 2015 ogni settimana tre omicidi, l’anno peggiore. Dagli ultimi dati disponibili nel report “On dangerous ground” riferiti al 2015 l’Ong Global Witness ha stimato un aumento del 59% di omicidi ambientali rispetto all’anno precedente, tre a settimana. Sono state infatti 185 le vittime, rispetto a 116 del 2014. Quattro su dieci appartenevano a un popolo indigeno.

Secondo gli attivisti è stato l’anno “più mortifero della storia”: 50 vittime in Brasile, 33 nelle Filippine, 26 in Colombia, 12 Perù, 12 in Guatemala. Paesi dove è estremamente rischioso battersi per difendere la propria terra sono anche l’Honduras, il Nicaragua, il Congo, l’India, l’Indonesia e il Messico.

In totale sono stati coinvolti 7 Paesi latinoamericani, 7 asiatici, 2 africani. La sola America Latina conta i tre quarti delle morti. E anche se il Brasile detiene il più triste primato, il più alto numero di omicidi pro-capite è in Honduras, con 101 vittime dal 2002 al 2014. Qui ogni tre giorni un indigeno viene ucciso, nel silenzio più totale. Le sue belle spiagge in una natura generosa, dove vivono da generazioni comunità indigene profondamente ancorate alle tradizioni, fanno gola a molti affaristi senza scrupoli, che vorrebbero trasformarle in grandi resort turistici. Sono tutti Paesi in cui sta aumentando la pressione per il reperimento di risorse e materie prime come il legno, l’olio di palma, i minerali o dove i grandi latifondi stanno imponendo monocolture tipo la soia.

Impunità quasi totale: solo 1 responsabile su 100 condannato. Omicidi, violenze, persecuzioni ed espropri forzati su cui raramente c’è l’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi, che non monitorano il fenomeno e assicurano, indirettamente, un’impunità pressoché totale nei confronti di chi commette i reati. Nei casi documentati da Global Witness

16 responsabili accertati erano legati a gruppi paramilitari, 13 all’esercito, 11 alla polizia e una quarantina ad organizzazioni di sicurezza privata. Solo 1 su 100 viene condannato, gli altri rimangono casi irrisolti.

Al contrario, si tende a criminalizzare chi organizza manifestazioni di piazza, chi protesta, etichettandoli come gruppi che si oppongono allo sviluppo. Anche un recente rapporto di Oxfam ha denunciato l’aumento vertiginoso di questi episodi, che coinvolgono 2,5 miliardi di persone, di cui 370 milioni di indigeni: ma solo un quinto di questi vede riconosciuti i titoli di proprietà delle terre. Secondo Oxfam, che ha documentato casi in Sri Lanka, India, Honduras, Perù, Mozambico, Australia, “stiamo entrando in una fase nuova e più pericolosa della corsa globale alla terra” e siamo di fronte a “un vero e proprio etnocidio”. Campagne, appelli e petizioni on line vengono spesso lanciate dalle organizzazioni ambientaliste o in difesa dei diritti umani per chiedere ai governi d’intervenire con urgenza.