La strage nel Mediterraneo

Tragedie del mare: Regina Catambrone (Moas), “i migranti salvati rinascono a nuova vita”

In meno di tre anni hanno salvato ben 30mila persone. Sono le due navi del Moas (Migrants offshore aid station), voluta dai coniugi Regina e Christopher Catambrone, due imprenditori (lei calabrese, lui italo-americano) residenti a Malta. E’ la prima missione privata di salvataggio nel Mediterraneo

E’ la rotta marittima più pericolosa del mondo, con cifre che peggiorano sempre, tanto che il 2016 è già stato definito “l’anno nero” delle morti in mare. Il Mediterraneo ha contato anche in questi dieci mesi il suo bilancio funesto: 3.654 persone annegate, su 4.899 morte nel tentativo di raggiungere l’Europa. Questa settimana nel Canale di Sicilia ci sono stati almeno tre naufragi, si temono un centinaio di vittime. Numeri che sarebbero ancora più alti se non ci fossero le navi della Marina militare italiana, delle forze in mare europee, e delle organizzazioni umanitarie. La prima in questo senso, nata nel 2013 dopo il disastroso naufragio al largo di Lampedusa con 399 vittime e ispirata alle parole di Papa Francesco nel suo famoso discorso contro “la globalizzazione dell’indifferenza”, è l’iniziativa privata del Moas (Migrants offshore aid station), voluta dai coniugi Regina e Christopher Catambrone, due imprenditori (lei calabrese, lui italo-americano) residenti a Malta: “Siamo convinti che nessuno meriti di morire in mare e ci adoperiamo con ogni mezzo per evitarlo”. Oggi le due navi del Moas percorrono il Mediterraneo con personale specializzato a bordo e la presenza della Croce rossa italiana ed internazionale. In meno di tre anni hanno salvato ben 30mila persone. L’ultimo salvataggio pochi giorni fa, con 300 profughi arrivati a Messina a bordo della nave “Phoenix”. Ce ne parla proprio Regina Catambrone, di passaggio a Roma per partecipare ad un convegno di Caritas italiana.

 

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Regina Catambrone – Moas

Cosa state scoprendo grazie a questo vostro impegno in prima linea?

Oggi ci rendiamo conto di una grande diversità delle persone che arrivano dal mare. Molti sono vulnerabili.

Abbiamo salvato perfino persone con sedie a rotelle,

che hanno affrontato un viaggio rischioso e difficile nonostante le due gambe paralizzate. Questi casi così gravi non dovrebbero mai essere messi nelle mani dei trafficanti. Noi continuiamo ad avere una presenza in mare ma crediamo sia

necessario e urgente fare dei corridoi umanitari.

Salviamo le persone nelle acque internazionali ma la maggior parte viene dalla Libia. Tra loro ci sono molti siriani. A abbiamo salvato una famiglia siriana, benestanti: padre di 70 anni, moglie di 63 e due figlie di 37 e 27 anni. Sono fuggiti da Damasco perché ogni volta che uscivano di casa potevano  essere uccisi dalle bombe. Sono andati in Tunisia, con la macchina hanno guidato fino in Libia ed hanno preso un barcone che però è stato fermato dalla guardia costiera. Dopo un mese hanno riprovato perché erano disperati e determinati ad arrivare in Europa. Una delle figlie parla spagnolo e vorrebbe andare in Spagna, gli altri tre vorrebbero riunirsi ad un altro figlio che è già in Germania. Sono situazioni che non dovrebbero essere affrontate in questo modo.

E’ un’azione umanitaria gravosa ed impegnativa, come è cambiata la vostra vita?

Dentro di noi avevamo sempre questo seme che ora è cresciuto e abbiamo sparso in mare e a terra. Quando abbiamo iniziato non c’era nessuno, adesso ci sono tante organizzazioni umanitarie che salvano vite umane. E’ un movimento fantastico di società civile che si mette in gioco per il soccorso a chi è più debole. Ora dobbiamo unirci per un aiuto più effettivo, perché le persone che hanno diritto all’asilo non dovrebbero prendere queste imbarcazioni, dovrebbero arrivare tramite corridoi umanitari, legalmente con un aereo. C’è tanta disumanità in questo traffico di esseri umani, tanta violenza. Noi ci siamo messi in gioco in prima persona, anche esponendoci. Siamo stati anche criticati, ci hanno detto che traffichiamo in esseri umani, che ci arricchivamo con i poveri.

Sì ci siamo arricchiti ma di vita. Siamo riusciti a dare una speranza e le persone vivono di speranza.

Continuate ad avere contatti con alcune delle persone salvate?

Sì, alcuni continuano ad avere contatti con il nostro staff ma non tutti perché rispettiamo la loro privacy. Se vogliono siamo ben lieti di farlo ma ci sono tante altre organizzazioni che si occupano di accoglienza e integrazione ed è giusto che lo facciano loro.

Di fronte alle cifre delle morti nel Mediterraneo che aumentano di anno in anno, non avete la sensazione di lottare contro i mulini a vento?

Dobbiamo continuare a provare empatia verso le persone e a metterci nelle loro condizioni. Chiederci perché lo fanno, cosa sta accadendo nei posti da dove provengono. Ognuno di noi può dare un aiuto a seconda delle proprie attitudini e competenze, mettendosi in gioco per aiutare il proprio fratello.

Come è cambiato il quotidiano della vostra famiglia?

E’ cambiato, perché abbiamo sacrificato il nostro tempo insieme ma per un fine maggiore. Mio marito è stato in nave, anche io e mia figlia che oggi ha 20 anni siamo state sulla nave diverse volte, se possibile insieme o da soli. Un sacrificio relativo di risorse per l’aiuto di vite umane.

Non si può mettere sulla bilancia la vita di 30mila persone con i denari spesi, perché sicuramente l’ago della bilancia andrà verso la vita, non verso i soldi.

Sentite quindi di aver dato un senso e un valore importante alle vostre vite?

Sì. Sono convinta che aiutando gli altri si aiuta se stessi. Ci si arricchisce di situazioni, storie, realtà, che nessun libro, nessuna laurea, niente ti può dare.

Le parole del Papa a Lampedusa sono state importanti per la vostra decisione?

Assolutamente sì. Bisogna abbattere i muri dell’indifferenza e creare ponti di amore e di solidarietà. Non aver paura della differenza e dello sconosciuto ma andare a conoscerlo. Andare nei posti dove vivono le persone che fuggono e capire perché lo fanno. E’ l’unico modo per capire e trovare delle soluzioni a medio e lungo termine per il fenomeno migratorio e non affrontarlo solo come una crisi.

Avete già incontrato Papa Francesco?

Ancora no. Però preghiamo per lui. Viviamo a Malta e se non possiamo andare in chiesa lo ascoltiamo in televisione.

Come vi coordinate con la Marina militare e le altre realtà nel Mediterraneo?

Sin dall’inizio c’è stato un coordinamento fantastico. Sembra strano ma

il mare unisce molto. E’ un territorio neutro e ogni volta che salviamo una persona dalle acque o da una imbarcazione che sta affondando è come se rinascesse a nuova vita.

Il mare è come il ventre di una mamma ed è come se noi dessimo a questa persona la speranza di una nuova vita, di un nuovo futuro. Perché i migranti sono solo alla ricerca della pace, della tranquillità e della felicità che gli sono negate in questo momento.

Ci sono altre collaborazioni in vista?

Speriamo. Perché il Moas non è iniziato solo come ricerca e soccorso in mare ma anche come piattaforma umanitaria dove diverse organizzazioni come i post-rescue (le persone che ci aiutano dopo i soccorsi), possano coadiuvarci. Quindi imparare gli uni dagli altri e correggersi gli uni con gli altri, come persone che stanno facendo un cammino insieme. Nessuno è perfetto. In queste situazioni non c’è perfezione però ci deve essere professionalità, specialmente nella ricerca e soccorso in mare perché la vita delle persone dipende da pochi momenti cruciali.

Qual è il vostro fiore all’occhiello in termini di professionalità?

Usiamo anche i droni. Ci siamo battuti per la tecnologia fin dall’inizio. Volevamo essere innovativi e far capire che il drone può essere usato per il bene, non solo per la videosorveglianza militare. Noi chiamiamo i droni “gli occhi del Phoenix” perché volando si può estendere di svariate miglia l’area di ricerca e soccorso. Poi non è detto che se noi identifichiamo una nave in panne dobbiamo essere noi il vascello portante. Noi ci coordiniamo con il centro della guardia costiera di Roma e stiamo ai loro ordini. Sono loro a decidere se saremo noi il vascello portante oppure un’altra imbarcazione militare o di altre associazioni umanitarie.