Diplomazia
La scelta accurata delle parole è indizio di concretezza, nel discorso di Francesco. Basta fare un esempio: il terrorismo è, per lui, “di matrice fondamentalista” più che di matrice religiosa. Non solo perché uccidere nel Nome di Dio è bestemmia e, perciò, non può esser prova di attitudini autenticamente religiose, ma anche perché la pace si guadagna esercitandosi in mille cautele, che appartengono non tanto all’arte di negoziare, ma a quella di dialogare… Proprio il dialogo – interreligioso oltre che interculturale – è l’espressione più significativa della concretezza nell’arte diplomatica, secondo Francesco. Non per niente il dialogo è “possibile e necessario” al contempo
La diplomazia non può e non deve scadere mai nel mero pragmatismo, ma deve – comunque – dimostrarsi sempre molto fattiva: la sua cifra principale è la concretezza. Si può distillare questa “morale” dal discorso di auguri per il nuovo anno che Francesco ha rivolto oggi (9 gennaio 2017) ai membri del Corpo diplomatico in servizio presso la Santa Sede.
Un discorso che è già in se stesso un esempio di concretezza, senza eccessivi formalismi, senza inutili salamelecchi, forte piuttosto di una lucida capacità di analizzare gli scenari mondiali in cui insorgono i drammatici problemi per la cui soluzione il Papa non smette di fare pressing nelle cancellerie di mezzo mondo: dalla “guerra globale a pezzi” – solo apparentemente frammentata in uno sfilacciato puzzle di focolai bellici, che spesso sono collegati gli uni con gli altri e tenuti insieme se non altro dall’infame commercio delle armi -, al terrorismo, alla tratta delle schiave del sesso e degli schiavi del lavoro nero, al mercato di carne umana che è ormai diventato il fenomeno migratorio nel Mediterraneo, ai disastri ecologici che feriscono la Terra e con essa le popolazioni più deboli e indifese.
La concretezza del Papa si declina proprio nell’esplicita menzione dei luoghi che costituiscono attualmente i fronti bellici più caldi, o quelli in cui insorgono le più gravi emergenze umanitarie, o quelli in cui ci si ritrova a discutere per calibrare gli accordi sul clima, dal Venezuela a Parigi, passando da Cuba per approdare nell’isola di Lesvos, senza dimenticare le tante contrade africane martoriate dalla violenza, non meno del Medio Oriente, in particolare i territori contesi tra palestinesi e israeliani.
Davvero per Francesco il mappamondo non è una semplice “espressione geografica”:
su di esso, sotto lo sguardo del Papa, risaltano le macchie del sangue delle vittime; da esso, all’orecchio di Francesco, arriva il grido degli innocenti.
Anche la scelta accurata delle parole è indizio di concretezza, nel discorso di Francesco. Basta fare un esempio: il terrorismo è, per lui, “di matrice fondamentalista” più che di matrice religiosa. Non solo perché uccidere nel Nome di Dio è bestemmia e, perciò, non può esser prova di attitudini autenticamente religiose, ma anche perché la pace si guadagna esercitandosi in mille cautele, che appartengono non tanto all’arte di negoziare, ma a quella di dialogare, come Francesco aveva già detto a Firenze nel novembre del 2015, lì dove spiegò ai delegati del V Convegno ecclesiale italiano che
negoziare è appunto “cercare di ricavare la propria fetta della torta”, mentre dialogare è “cercare il bene comune per tutti”.
Proprio il dialogo – interreligioso oltre che interculturale – è l’espressione più significativa della concretezza nell’arte diplomatica, secondo Francesco. Non per niente il dialogo è “possibile e necessario” al contempo. Sembra di avvertire l’eco del magistero di Paolo VI – peraltro insistentemente citato da Francesco – in questa definizione del dialogo. Già nel n. 60 dell’enciclica Ecclesiam suam, infatti, si può leggere che il dialogo è insieme una ineludibile necessità e una semplice possibilità: lo si deve tentare, perché non rimane ragionevolmente altro da fare; ma esso può incepparsi e fallire per mille motivi. Del resto, al dialogo appartiene per sua stessa natura un’indole controversa, che da una parte lo configura come amichevole colloquio e dall’altra parte – costringendolo a passare attraverso il setaccio del confronto con gli altri – può trasformarlo in polemica. Come avviene già a livello semantico quando si traduce il termine greco nel suo corrispettivo latino: il dialogo – inteso e praticato come proiezione di sé e del proprio mondo in un altro orizzonte concettuale, in un’altra tradizione dottrinale, in un’altra sensibilità culturale, in un altro universo valoriale – rischia, talvolta, di cambiare i propri connotati, diventando diverbio. Per dargli un’ulteriore possibilità di buona riuscita, dovremmo tutti capire che
nel dialogo non si tratta di accettare acriticamente ciò che di diverso pensano gli altri, ma di accettare che gli altri possano pensare diversamente, per giungere a renderci conto che non ci si può pensare senza gli altri:
era la convinzione di Michel de Certeau, gesuita francese i cui libri di certo stanno nella libreria personale di Francesco.
Il dialogo “possibile e necessario” cui si appella Francesco è perfettamente congeniale all’obiettivo concretissimo di ogni sana diplomazia: la pace. Che per il Papa è proprio una “virtù attiva”, “una sfida e un impegno” oltre che un dono di Dio: “Una sfida perché è un bene che non è mai scontato e va continuamente conquistato; un impegno perché esige l’appassionata opera di ogni persona di buona volontà nel ricercarla e costruirla”.