Migranti

Shoah, una memoria da applicare al presente

Ogni tanto una voce si leva: migranti, nuovo olocausto. Voci criticate. A partire dalle stesse comunità ebraiche. Il giudizio verrà dalla storia, ma i nostri occhi sanno quello che hanno visto: uomini implorare cibo, alloggio, aiuto, vita ad altri uomini. Accolti in modo straordinario a volte. Respinti altre. E così, in barba ai ragionamenti, si mescolano le immagini delle file di ieri, di quelle di oggi. Di mani protese dai treni come dai barconi. Di corpi gettati e di corpi riemersi

È qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anzi d’antico. Il poeta lo avrebbe forse descritto così questo pensiero che ritorna e avvicina due realtà in sé molto lontane. E non solo nel tempo.
Il fatto è che di fronte alle immagini che vengono dai tg, rispunta un senso di inadeguatezza estrema, di imbarazzo, di pietà e incredulità insieme. La stessa vergogna che ci colpisce di fronte alle immagini che, settanta anni fa, mostravano uomini e donne in fila sotto la neve. Sono tornati. Non portano il pigiama a righe, stanno avvolti in coperte, unica difesa ai meno venti che incombono, ma non bloccano, la rotta balcanica.
Muri alzati, filo spinato, parole dure: calano come lame di ghiaccio su donne, bambini e ragazzi intirizziti, chini a fare fuochi dentro bidoni, alimentandoli con pezzi di carta e stoppie. Fuochi a cui tendono mani e piedi gelati. L’inverno balcanico non si muove a pietà di fronte alle loro infradito. Non è l’unico.
Anche dall’altro fronte degli arrivi, quello del mare, il flusso non si ferma. Lo scorso fine settimana non sono mancati i barconi affondati. E i morti. Sono stati 362 mila i migranti sbarcati in Europa nel 2016. Settemila gli annegati nel biennio 2014-2015. Dimenticati da noi, cullati dal Mediterraneo. “Mare nostro – scrive Erri De Luca – ti abbiamo seminato di annegati, più di qualunque età delle tempeste”.
Certo, non si fanno paragoni. La storia di oggi non è quella di settanta anni fa. Oggi ci sono persone che partono volontariamente verso mete di speranza e sogni di vita nuova. Ieri erano deportate con la forza, verso la destinazione finale. Oggi abbandonano il loro paese spinte da guerre e carestie. Ieri erano catturate da una un’ideologia di annientamento mirato.
Il pensiero distingue. Ma la mente, quasi a dispetto, associa immagini. Nel cuore si risveglia un orrore che si credeva chiuso nei libri di storia. I barconi stipati non sono del resto meno mortiferi di certi treni del passato.
Sarà che si avvicina il 27 gennaio. Suggestione da calendario? Ogni tanto una voce si leva: migranti, nuovo olocausto. Voci criticate. A partire dalle stesse comunità ebraiche. Il giudizio verrà dalla storia, ma i nostri occhi sanno quello che hanno visto: uomini implorare cibo, alloggio, aiuto, vita ad altri uomini. Accolti in modo straordinario a volte. Respinti altre.
E così, in barba ai ragionamenti, si mescolano le immagini delle file di ieri, di quelle di oggi. Di mani protese dai treni come dai barconi. Di corpi gettati e di corpi riemersi.
Ci inchioda una frase: “Caino, dov’è tuo fratello?”. La domanda di papa Francesco a Lampedusa.
Il 27 gennaio ritorna, con le sue celebrazioni. Serva a ricordare le atrocità di ieri come a non distrarsi dalle crudeltà di oggi. Non sia puro esercizio di memoria, ma monito. Sia un altro “mai più”. Sei milioni di ebrei morti, perché teorizzati inferiori, sono sembrati un obbrobrio tanto orrendo quanto irripetibile. Ma un documento presentato alle Nazioni Unite stima in oltre 45 mila i morti nel Mediterraneo dal 2000 ad oggi. Vi si aggiungono le sofferenze di chi risale a piedi l’Europa, di chi aspetta a Calais, di chi ha conosciuto i campi a Lesbo. Una situazione che il papa ha definito: “La catastrofe umanitaria più grande dopo la Seconda guerra mondiale”.
Storie diverse. Ma non c’è uomo che, ieri come oggi, abbia il diritto di umiliarne a tal punto un altro. E di credersi nel giusto.