Testimonianza
Si celebra il 27 gennaio il Giorno della memoria. È la data simbolo della fine delle persecuzioni nazifasciste in Europa, perché quel giorno del 1945 i soldati dell’esercito sovietico entrarono nel campo di Auschwitz-Birkenau. È Alberto Mieli a condurci quest’anno lungo la memoria di quegli anni. È uno degli ultimi deportati romani, nei campi di sterminio nazisti, ancora in vita. “Ho avuto la fortuna o la sfortuna – dice – di vedere l’apice della cattiveria, della brutalità, della malvagità dell’uomo. Dove può arrivare l’uomo a fare cose contro un suo simile”
“Prendevano per i piedini bambini di 3/4 mesi, come quando escono dalla pancia della mamma. Li facevano dondolare 5/6 volte e con violenza li tiravano in alto e sparavano. E loro ridevano, facevano scommesse, l’obiettivo era fare centro”. Sono passati tanti anni ma il ricordo dell’orrore è vivissimo nella mente di Alberto Mieli. È uno degli ultimi deportati romani, nei campi di sterminio nazisti, ancora in vita. Ne sono rimasti pochissimi e ancor di meno sono quelli che possono ancora raccontare, dare un volto e delle immagini alla Shoah. Si celebra il 27 gennaio il Giorno della memoria. Alberto ha un’agenda fittissima d’incontri. È difficile prendere un appuntamento. Ma lui non dice “no” ad alcuno. Il suo racconto scorre lento, ti guarda fisso negli occhi per capire se hai davvero afferrato l’entità dell’orrore vissuto: ogni parola che pronuncia è un macigno.
Sul braccio mostra il numero 180060. “Quando me lo fecero piansi. Pensai, sono marchiato come una bestia”.
Aveva solo 17 anni quando Alberto vide la scena dei bambini lanciati per aria. Ma – racconta – “m’avevano già accoppato”. Seguendo la memoria di Alberto si rivive come un film in bianco e nero la Roma nazifascista, le leggi razziali, il suono delle sirene, i rifugi anti-aerei. Furono tre francobolli avuti a Roma dai ragazzi della resistenza, a far sprofondare Alberto nel girone infernale della Shoah. “Mi prese la Gestapo, mi frantumò le ossa dei piedi chiedendomi chi mi avesse dato i francobolli. Mantenni il punto, dicendo che li avevo trovati, e loro picchiavano. Con il manganello mi colpivano la pianta dei piedi fino a farli sanguinare. Un dolore insopportabile. Poi chiamarono due secondini per portarmi in cella ma quando stavamo uscendo dalla porta della stanza, dissero: riportatelo qua! E mi infilarono una pinza in bocca e mi strapparono un molare. Svenni e mi trovai in cella tutto imbrattato di sangue”. Da lì, la storia di Alberto prese una svolta terribile.
“Ad Aushwitz – racconta – cambiò tutto. Ad Aushwitz cambiò il mondo. Vedere picchiare donne in stato interessante, vecchi, malati, senza pietà, senza un perché”.
Alberto non ha perso la luce negli occhi, ma un’ombra profonda attraversa il viso quando gli si chiede di raccontare la vita nei campi di concentramento. “Ancora sento l’odore acre avvertito appena arrivato lì. Credevamo che fosse per il materiale chimico utilizzato nelle fabbriche di guerra, ma nel giro di 4/5 giorni venimmo a sapere che si trattava dei forni crematori che lavoravano, 24 ore su 24, per bruciare cadaveri”.
Le donne hanno sofferto di più. “Venivano umiliate. Tagliavano loro i capelli e poi venivano denudate davanti a tutti. Le ragazze tutte nude, per istinto, cercavano di proteggersi con le mani, ma loro con il fustino le picchiavano forte, fino a che non stavano sull’attenti.
E poi le mandavano su, alle baracche adibite a bordello. Si sentivano strilli e grida. E posso dire che su gruppi di 10/15 ragazze, 9 non conoscevano che cosa era il sesso”.
Un giorno, Giovanni Paolo II – “un grande uomo che sapeva bene chi erano i nazisti” – gli chiese come ha fatto a sopravvivere a quell’inferno. “Non lo so”, dice Alberto. “Ancora non so rispondere a questa domanda. Botte ne ho prese tante. Il dolore fortissimo. Ma la vita è più forte, hai sempre la speranza di uscirne illeso”.
È quella luce fievole, ma sempre accesa, ad averlo tenuto in vita, dentro. Ed è quella luce che ora cerca di far vedere ai ragazzi, andando a incontrarli nelle scuole. “Dico loro di fare cose buone e di non dare mai dispiacere ai genitori, di non ascoltare i compagni che vorrebbero portarli sulla cattiva strada perché potrebbero pentirsi per tutta la vita. E poi dico che abbiamo avuto un grande regalo dal Signore che è la libertà. Questa è una cosa sacra, si può dare la vita per la libertà.
Un uomo non è nulla, se non può esprimere le proprie idee, ma soprattutto se non sa rispettare quelle degli altri. Dico ai ragazzi che la vita è una cosa bellissima”.
Prima di salutarci, sottolinea: “Ho avuto la fortuna o la sfortuna di vedere l’apice della cattiveria, della brutalità, della malvagità dell’uomo. Dove può arrivare l’uomo a fare cose contro un suo simile”. Ma sono atrocità che continuano ancora oggi, in tante parti del mondo. Lei come le vive? “I bambini… – risponde – prego ogni mattina quando mi alzo per loro e chiedo al Signore di benedire i bambini, di proteggere i bambini”.