Dopo la Settimana di preghiera
Don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo, stila un bilancio dell’impegno ecumenico nelle diocesi italiane al termine della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che si è celebrata dal 18 al 25 gennaio. “Sta crescendo una sensibilità più ampia che abbraccia tutto l’arco dell’anno. Al di là di progetti e iniziative, è lo stile che sta cambiando”
Finita la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, finito l’impegno ecumenico dell’Italia cattolica. “No, non finisce qui”, risponde subito don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo. “Anche perché mi pare sia impressione condivisa il fatto che in giro per l’Italia siano veramente tanti gli appuntamenti, le giornate, gli incontri e i progetti concreti sul territorio che tengono presente una dimensione ecumenica. Sta crescendo una sensibilità più ampia che abbraccia tutto l’arco dell’anno. Al di là di progetti e iniziative, è lo stile che sta cambiando”.
A proposito di stile, don Bettega, il Papa ha invitato a superare la tentazione dell’autoreferenzialità. Come si fa?
Guardare l’altro come qualcuno da cui posso imparare e non come un qualcuno a cui dare un contentino perché è un ortodosso o protestante o perché ha bisogno di una sala per celebrare la liturgia o il culto. Non si tratta di sentirci magnanimi, compiacersi per la nostra generosità, ma prendere atto che la storia e il tempo, nel quale viviamo, ci obbligano a uno sguardo aperto. E avere uno sguardo aperto significa oggi riconoscere che
ciascuno di noi è chiamato a imparare dall’altro perché la verità a cui aneliamo, è qualcosa che supera me cattolico, me ortodosso, me protestante e come tale va ricercata insieme.
Questa considerazione è il frutto di una Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che va avanti da 50 anni e la preghiera ha consentito ai credenti di riconoscersi in questi anni, pian piano, ma sempre di più, come fratelli.
Si susseguono in Italia casi di Chiese cattoliche donate ai fedeli ortodossi. Un fenomeno visto da alcuni come dono, da altri come segno di un cattolicesimo in diminuzione a fronte di una popolazione di immigrati sempre più numerosa. Come rispondere alle reticenze?
Dare in uso una chiesa a una diocesi ortodossa, che sia del Patriarcato ecumenico, russo o romeno, significa riconoscere che quella comunità è diventata particolarmente numerosa nella mia città e, quindi, evidentemente bisognosa di un luogo in cui incontrarsi e celebrare. Non dimentichiamo che la stessa cosa accadde agli italiani emigrati in Germania nell’immediato dopoguerra, soprattutto dall’Italia meridionale. Prendere atto che una comunità ortodossa è diventata numerosa nella mia diocesi, può diventare un’occasione per lavorare insieme e operare in quanto cristiani sul territorio. È un dato di fatto che la crescita esponenziale delle comunità cattoliche non c’è più in Italia e in Europa. Ma la prospettiva con cui guardare a questo fenomeno, si deve ribaltare.
È il segno non tanto di una comunità cattolica che diminuisce ma di una cristianità che in Italia aumenta.
Solo se riusciamo a uscire dal nostro piccolo recinto, possiamo essere grati e leggere questo fenomeno come provvidenziale.
Quest’anno si celebrano i 500 anni della Riforma di Lutero ma persistono in ambito cattolico visioni discordanti e tentennamenti sulla sua figura. Lei che ne pensa?
I tentennamenti vanno capiti e rispettati. Abbiamo alle spalle 500 anni di storia che ha visto separazioni, guerre e, negli ultimi decenni, reciproca diffidenza. Il fatto però che Lutero non volesse spaccare e dividere la Chiesa, non è papa Francesco a dirlo, ma la storia. Se andiamo alle fonti e ai documenti, ci rendiamo conto che era volontà di Lutero riformare la Chiesa. Se poi a dispetto di questa originaria volontà, le cose siano andate diversamente e le Chiese si siano separate, è un dramma di cui pentirsi e chiedere perdono. Ma come ha detto papa Francesco a San Paolo fuori le mura,
guardare indietro è necessario per purificare la memoria ma fissarsi sul passato può impedire di vivere il presente.
Certo è che, per sua natura, il movimento ecumenico spinge in avanti e questo provoca timori.
La paura è comprensibile. In fondo è antropologico il timore dell’uomo per il nuovo perché mette in discussione ciò su cui ho costruito le mie certezze, le mie abitudini, la quotidianità stessa della mia fede cristiana. D’altronde è vero anche che l’ecumenismo è un movimento che spinge perché mi obbliga ad uscire dagli schemi. Il confronto con gli altri mi chiede di lasciare qualcosa di definito e sicuro per andare verso qualcosa che non conosco. Mi spiego: non sappiamo cosa vuol dire e cosa implica essere uniti. Sappiamo che siamo incamminati verso la comunione piena di tutti i credenti in Cristo, ma come concretamente questo avvenga ancora non lo capiamo. Per questo, preghiamo perché il Signore doni unità e pace secondo la sua volontà, non la nostra. Tutto questo rappresenta per tutti una sfida e questa sfida può mettere in conto anche una certa paura e resistenza. Ma è la nostra stessa fede a chiederci di uscire dall’isolamento. Se veramente crediamo in un Dio che è diventato carne in Gesù Cristo, in un Dio che è stato il primo ad uscire fuori da se stesso, noi oggi non possiamo fare il movimento contrario.