Verso il futuro

Giovani: oltre l’individualismo per essere insieme protagonisti del cambiamento e motore di sviluppo del Paese

La forza della solidarietà intergenerazionale della famiglia italiana, unicum in Europa, combinata con politiche di investimento sui giovani. Secondo il demografo Alessandro Rosina, è il mix necessario per sbloccare l’immobilità del nostro Paese. Alle nuove generazioni lo studioso chiede però di superare le risposte individualistiche alle difficoltà comuni e di avere una visione chiara e condivisa per essere, insieme, motore di cambiamento e di sviluppo

Non hanno l’effervescenza dei loro coetanei degli anni ‘60/70, la turbolenza di quelli degli anni ‘80 e neppure l’ambizione delle giovani generazioni degli anni ‘90. E al loro interno i ventenni si differenziano dai trentenni: cresciuti in un clima di insicurezza e di crisi hanno assistito al fallimento del progetto di vita di molti dei loro “fratelli maggiori”. Partono già disillusi e senza troppe aspettative, consapevoli che la propria generazione sarà costretta a retrocedere nella scala sociale. Mobili e immobili al tempo stesso: così si configurano i giovani italiani di oggi.

“L’Italia rischia di essere un Paese sempre più povero di giovani, e con giovani sempre più poveri”, dice al Sir Alessandro Rosina, docente di demografia all’Università Cattolica di Milano e coordinatore scientifico del Rapporto Giovani promosso dall’Istituto Toniolo, a margine del XXXVII convegno Bachelet “Mobilità–immobilità. La società italiana per le nuove generazioni”, promosso dall’Azione cattolica italiana e dall’Istituto “Vittorio Bachelet” (Roma, 10 – 11 febbraio). Sullo sfondo l’eco del suicidio del trentenne friulano, e non mancano le voci di giovani che confessano di riconoscersi, almeno in parte, nella sua lettera – testamento.

Secondo l’Istat, la percentuale di under 35 italiani è la più bassa in Europa (34,6% ad inizio 2016), mentre a dicembre 2016 la disoccupazione giovanile ha toccato il 40,1%. Eppure la voglia di partecipazione e di cambiamento è elevata: l’83% dei giovani tra i 18 e i 34 anni pensa che sia importante essere attivi nel promuovere il bene della società; più del 60% ritiene indispensabile un coinvolgimento diretto nella definizione delle politiche che riguardano le nuove generazioni.

Professor Rosina, i giovani italiani sono “mobili” o “immobili”?
La mobilità come spostamento dai punti di equilibrio delle precedenti generazioni per trovare nuove frontiere da colonizzare c’è tutta, ma si sono ridotte le condizioni per sostenerla e incoraggiarla. In una realtà molto più complessa del passato, il percorso di discernimento si è frammentato perché sono venuti meno punti di riferimento e strumenti culturali per confrontarvisi. L’unico modo per gestire la complessità è mettersi in gioco, sperimentare, sbagliare e imparare dai propri errori. In questo i giovani sono “immobili”: non scelgono, non rischiano, rimandano il più tardi possibile l’assunzione di responsabilità e quindi la transizione all’età adulta. I desideri esistono ma manca la possibilità/capacità di tradurli in progetti e poi di realizzarli. A questo si aggiungono l’iperprotezione dei genitori e la carenza di politiche di welfare attivo.

L’iperprotezione familiare è però “obbligata” proprio da questa carenza. Qui è la politica ad essere immobile…
Oggi i giovani sono meno numerosi che in passato: il loro peso demografico, economico, sociale e politico si è progressivamente ridotto; le risorse destinate sono gradualmente diminuite, i loro diritti “scippati”. Il minore peso numerico si traduce in ridotta capacità di fare massa critica e in scarso peso elettorale. Alla politica conviene “rivolgersi” alla fascia dei sessantenni, numerosa e strutturata, piuttosto che rischiare con giovani ‘liquidi’, difficili da intercettare.

Come superare questo impasse che rischia di diventare un tunnel senza uscita?

Occorre combinare il valore culturale della famiglia e della forte solidarietà generazionale, unicum italiano in tutta Europa, a strumenti di sostegno che riconoscano ai giovani il loro essere cittadini.

Negli altri Paesi dove, pur con alcune differenze, il welfare investe anche su di loro, i ventenni sono consapevoli di essere riconosciuti come cittadini titolari di diritti e obblighi, e se questi diritti non vengono garantiti, li esigono. In Italia invece si considerano “figli” e la politica preferisce mantenerli soggetti passivi anziché aiutarli ad essere protagonisti nel processo di sviluppo del Paese.

C’è chi sostiene che i nostri giovani non si mobilitano a difesa dei loro diritti…
Non hanno motivi di conflittualità con genitori-complici che consentono loro piena libertà e dai quali si fanno aiutare anche in età adulta. Per il resto si adattano al ribasso, al precariato, al lavoro nero, oppure scelgono la “mobilità forzata” andandosene dall’Italia.

Scelte che però ne depotenziano e disperdono in rivoli di interessi e risposte individuali la possibilità di diventare in modo compatto motore di cambiamento strutturale della realtà.

Che cosa dovrebbero fare?
Passare dall’unica cosa che attualmente li accomuna – la visione delle difficoltà che ognuno affronta singolarmente –

alla visione di Paese che vogliono realizzare e alla maturazione, insieme, di un percorso di cambiamento.

Se questo non parte da loro, la società rimane bloccata con il rischio che le nuove generazioni continuino a chiedere come favore ai genitori ciò che invece la società dovrebbe riconoscere come diritto.