Visita a Roma Tre
Nella sua prima visita ad una università statale italiana, Roma Tre, Papa Francesco mette da parte il testo scritto e parla a braccio per più di mezz’ora, rispondendo alle domande degli studenti. Ha indicato l’università come luogo di “dialogo nelle differenze”, dove “c’è posto per tutti”, e ha invitato a contrastare la “liquidità” con la “concretezza”. I migranti “non sono un pericolo”, ma “una sfida per crescere”. No ad università “di élite”
L’università, luogo di “dialogo nelle differenze”, dove “c’è posto per tutti”, anche per chi si è salvato da quel “cimitero” che è diventato il Mediterraneo, “Mare nostrum”. Nella sua prima visita ad una università statale italiana, il Papa ha messo da parte il testo scritto, consegnato al rettore dell’Università Roma Tre, Mario Panizza, e ha parlato per più di mezz’ora a braccio, rispondendo alle domande di quattro studenti, tra cui Nour, la ragazza siriana salita in aereo con lui a Lesbo insieme ad altri undici migranti, nell’aprile del 2016. Ora Nour è qui con suo marito e il suo bambino, Riad, e può abbracciare il Papa, come ha fatto la folta rappresentanza dei 40mila studenti che hanno reso omaggio a Francesco con un bagno di folla, nel piazzale antistante all’ingresso principale di Roma Tre, dove l’ateneo – il più “giovane” di Roma – venne fondato 25 anni fa. È a Nour che Francesco risponde – affiancato durante tutto il suo discorso da una traduttrice per la lingua dei segni – quando dice che le migrazioni “non sono un pericolo”, ma “una sfida per crescere”, attraverso l’accoglienza e l’integrazione. Su tutto, l’invito alla “concretezza”, come unico antidoto a quella “liquidità” che mette in pericolo la vita di gran parte dei nostri giovani, con una disoccupazione che in Europa va dal 40 al 60%, sfrutta le nuove generazioni e le espone al pericolo delle dipendenze, fino al gesto estremo del suicidio o all’arruolamento in un esercito terroristico.
“C’è un’aria di violenza nelle nostre città”, esordisce Francesco, “la tonalità del linguaggio è salita tanto”, si grida per strada e a casa, si insulta con facilità. A casa non diciamo più neanche “buon giorno”, ma solo un “ciao”: saluti anonimi per “rapporti senza nome”. E così “la violenza cresce, diventa mondiale”, nell’epoca della “terza guerra mondiale a pezzetti”. “Bisogna abbassare un po’ il tono e bisogna parlare meno e ascoltare di più”, la medicina del Papa, che parte dal cuore: “In una società dove la politica si è abbassata tanto, si perde il senso della costruzione sociale, della convivenza sociale, e la convivenza sociale si fa col dialogo”.
No, allora, alle “università di élite”, le “università ideologiche”, dove ti insegnano soltanto una “linea di pensiero” e “ti preparano per fare un agente di questa ideologia”. “Quella non è università”, ammonisce Francesco: “Dove non c’è dialogo, dove non c’è confronto, ascolto, rispetto per come la pensa l’altro, dove non c’è amicizia, la gioia del gioco dello sport, non c’è università”. “Tutti insieme!”, la ricetta, per cercare la verità, la bontà e la bellezza”.
In un mondo globalizzato, ci vuole “unità”, ma non “uniformità”. Il modello non è la sfera, ma il poliedro, che fa “unità nella diversità”. Anche nella comunicazione, dove i social network hanno promosso una “rapidazione”, il rischio è che “una comunicazione così rapida, così leggera”, possa “diventare liquida, senza consistenza”, come ha denunciato da tempo Bauman. La sfida da raccogliere è
“trasformare questa liquidità in concretezza”, a cominciare dal mondo dell’economia e del lavoro.
Il monito è all’Europa, continente fatto “artigianalmente”, perché caratterizzato nella sua storia “da invasioni, migrazioni”. Perché i migranti fuggono? “Perché c’è la guerra e fuggono dalla guerra, o c’è la fame: fuggono dalla fame. Ma quale sarebbe la soluzione ideale? Che non ci sia la guerra e che non ci sia la fame”. Come accogliere chi arriva? “Primo, “come fratelli e sorelle, sono uomini e donne come noi”. Secondo: “Ogni Paese deve vedere quale numero è capace di accogliere”. Poi bisogna integrare, all’insegna dello “scambio di culture”. È questo che toglie la paura dei migranti:
quando c’è accoglienza, che è accompagnare e integrare, “non c’è pericolo con le migrazioni”.