Migrazioni

Tratta: le religiose con le donne in attesa di rimpatrio nell’ex Cie di Ponte Galeria. “Emergenza terribile”

L’appello di suor Eugenia Bonetti, fondatrice dell’associazione “Slaves no more”, che ogni sabato insieme ad altre 15 suore visita le donne recluse nel Centro di identificazione e rimpatrio di Ponte Galeria a Roma: “Stiamo vivendo un’emergenza terribile. Non abbiamo più posti liberi nelle nostre case di accoglienza, dobbiamo creare una rete tra realtà ecclesiali per sostenere queste donne”. Firmato protocollo d’intesa con la Prefettura.

Sono migliaia e migliaia le donne che arrivano in Italia con gli sbarchi, inviate dai trafficanti per soddisfare la crescente domanda di prostituzione. Ma l’accoglienza è in tilt, perfino quella delle religiose che lottano contro la tratta. “Stiamo vivendo un’emergenza terribile. Non abbiamo più posti liberi nelle nostre case di accoglienza, dobbiamo creare una rete tra realtà ecclesiali per sostenere queste donne”: è il grido di allarme e la richiesta di aiuto di suor Eugenia Bonetti, la religiosa da anni in prima linea nella lotta alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale, fondatrice dell’associazione “Slaves no more“. Tra le varie attività, suor Eugenia entra ogni settimana, insieme a 15 religiose di diverse congregazioni e nazionalità, nell’ex Cie di Ponte Galeria a Roma, che oggi si chiama Centro di identificazione e rimpatrio. Una struttura dalla fama pessima, che ha visto negli anni numerose proteste di attivisti, giornalisti e dei migranti stessi, finché un incendio ha distrutto una parte dell’edificio. Ora rimane aperta la sola sezione femminile. Recluse fino ad un massimo di 18 mesi, come stabilito dalla legge Bossi-Fini, perché con documenti irregolari, quindi da rimpatriare. Ogni sabato dal 2003 una quindicina di religiose vanno a portare conforto e ascolto a queste donne, tutte vittime di tratta. Ora sono 120, la maggioranza (65) nigeriane, poi latinoamericane e cinesi. Negli ultimi tempi stanno arrivando anche molte marocchine, ed è la novità. Vengono portate lì appena identificate negli hot spot al momento dello sbarco, in attesa di essere rimpatriate. Altre vengono intercettate mentre si prostituiscono in strada perché non in possesso del cedolino giallo che viene dato ai richiedenti asilo. Il 20 marzo l’associazione “Slaves no more”, insieme a Centro Astalli e Comunità di Sant’Egidio hanno firmato un nuovo protocollo con la Prefettura di Roma per continuare a dare aiuto, sostegno e progettualità, offrendo alle donne dell’ex Cie di Ponte Galeria la possibilità di rimpatri volontari assistiti.

I sabati a Ponte Galeria. “Ogni sabato trascorriamo insieme un pomeriggio di serenità, festa e preghiere – racconta suor Eugenia -. Ci dividiamo in gruppi a seconda delle lingue e le ascoltiamo: avere religiose di diverse nazionalità che parlano i vari dialetti è la nostra ricchezza. Le ragazze hanno tutte alle spalle storie dolorose, soffrono e piangono molto. Cerchiamo, per un momento, di toglierle alla monotonia e alla disperazione. Stanno tutto il giorno tra sbarre e cemento, senza nulla da fare, tra le stanze di 6/8 persone e il refettorio”. Alcune rimangono lì fino a 9/10 mesi in attesa delle pratiche burocratiche per i rimpatri. “Perché prolungare tanta sofferenza inutilmente?”, si chiede la religiosa. Il suo cruccio è dare a queste ragazze la possibilità di ricostruirsi una vita e un futuro una volta rimpatriate. Cosa non facile, perché se le famiglie vengono a sapere cosa facevano in Italia certo non le accoglieranno subito a braccia aperte.

30 ragazze aiutate in tre anni. Con il progetto “Ritornare per ricominciare” l’associazione “Slaves no more” negli ultimi tre anni ha già realizzato 30 rimpatri assistiti per aiutare le ragazze a reinserirsi in società e a rifarsi da una vita di umiliazioni e sofferenze: una casa, un lavoro. In Nigeria le religiose hanno due case di accoglienza a Lagos e Benin city, vanno a prenderle direttamente all’aeroporto. “C’è bisogno di tanto accompagnamento – dice suor Eugenia -. Non è una decisione facile”. Alcune donne invece, grazie al lavoro di organizzazioni sociali che mettono a disposizione gli avvocati, riescono ad uscire dall’ex Cie e a restare in Italia. “Ma dove vanno? Le nostre case di accoglienza sono piene, rischiano di essere intercettate dai trafficanti e finire di nuovo in strada”. Le situazioni più gravi, e non sono rare visto che tutte quelle che passano per la Libia vengono violentate, riguardano le donne incinte. “Per legge non possono restare nel centro perché la detenzione di una donna incinta si configura come sequestro di persona – riferisce -. Ma non hanno alternative e rischiano di finire in strada”.

L’appello alle realtà cattoliche: “Aiutateci”. La religiosa chiede per le ragazze recluse nei centri “spazi di aggregazione, corsi di lingue, di danza, per tenerle impegnate”. E alle varie realtà cattoliche coinvolte nell’accoglienza – Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Centro Astalli, Migrantes, Usmi – lancia un appello: “Mettere a disposizione case, personale preparato: serve una realtà di passaggio, una sorta di pronto soccorso per l’emergenza, soprattutto a Roma. Ci sono i fondi messi a disposizione dall’Unione europea. Bisogna sedersi intorno ad un tavolo e fare proposte valide e condivise”.