Regno Unito
Due le cose che hanno pesato fortemente: il senso di distanza e separatezza che Bruxelles e Strasburgo hanno sempre ispirato. E poi il modo in cui l’Unione europea si è posta nei confronti della diversità. Parla il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e vice-presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee), nel giorno in cui inizia ufficialmente, con una lettera firmata dalla premier britannica Theresa May, il divorzio del Regno Unito dall’Unione europea
“Penso che oggi molte persone nel Regno Unito avvertono una combinazione di ansia ed entusiasmo”. Prende la parola il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e vice-presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee). È il B-day. Il giorno in cui inizia ufficialmente, con una lettera firmata dalla premier britannica Theresa May, il divorzio del Regno Unito dall’Unione europea. L’ambasciatore britannico Barrow ha consegnato personalmente a Donald Tusk la notifica con cui secondo l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, Londra ufficializza l’intenzione di lasciare l’Europa. Da quel momento in poi partirà il conto alla rovescia per l’addio di Londra, previsto per il 29 marzo 2019, al termine di due anni di negoziato. Il cardinale Nichols è a Barcellona, in questi giorni, per partecipare a un Simposio europeo sui giovani. Subito osserva che da quando si è svolto il referendum, il suo Paese è sempre stato diviso: “Alcuni gruppi hanno protestato ma molte persone hanno detto ‘ok, una volta presa la decisione, dobbiamo andare avanti’”. E aggiunge: “I prossimi due anni saranno importanti e non credo che ci saranno improvvisi cambiamenti nell’immediato”. Due le questioni aperte: “I risvolti economici e finanziari” alla decisione di abbandonare l’Ue e “la questione legata al movimento delle persone attraverso confini che cambieranno. In particolare, c’è il tema delicato tra Eire e Irlanda del Nord”.
Quindi cosa aspettarsi ora?
È chiaro che non ci saranno decisioni nei prossimi due anni. Dobbiamo aspettare. Ma è importante dire che l’Inghilterra non vuole lasciare l’Europa. In questione è l’Unione europea. E penso che ci siano state due cose che hanno pesato fortemente. La prima è il senso di distanza e separatezza che Bruxelles e Strasburgo hanno sempre ispirato. E poi, il modo in cui l’Unione europea si è posta nei confronti della diversità.
È stata avvertita come una macchina costruita con lo scopo di diminuire la diversità e imporre una uniformità.
Le sue speranze?
Come nazione abbiamo ancora un posto in Europa e siamo parte del progetto comune europeo. Vogliamo essere buoni vicini per i Paesi europei. Come Chiese possiamo in questo senso dare un contributo sostanziale: abbiamo legami con le Chiese cattoliche delle altre nazioni europee e soprattutto diamo testimonianza comune che
nessuna nazione può vivere isolata.
L’attacco a Westminster rischia oggi di rafforzare i populismi e le politiche che invocano maggiori barriere. È così che si vince la sfida della lotta contro il terrorismo?
Riguardo all’attacco a Westminster, è chiaro che ciò che è avvenuto non ha nulla a che vedere con i confini.
L’attentatore era un uomo nato in Inghilterra, cresciuto in Inghilterra. Ha trascorso – è vero – un breve periodo in Arabia ed è diventato musulmano. Ma bisogna anche dire che era un uomo con una lunga storia di violenza. È stato 5 e 6 volte in prigione, chi lo ha conosciuto parla di un uomo molto arrabbiato Questo incidente va quindi guardato e interpretato nella sua realtà. Ma è chiaro che ogni governo ha il dovere di esercitare vigilanza e protezione.
Quale lezione trarre per il futuro?
C’è una cosa molto importante da imparare ed è quella di non permettere alle comunità di isolarsi. Penso che le persone di fede hanno molto da offrire. Il dialogo tra persone, che credono in Dio, crea uno spazio comune. Ed è da questo punto di vista un dovere per i leader religiosi parlarsi, incontrarsi, esplorare insieme soluzioni comuni, affrontare la questione del credo religioso che sfocia in estremismo e violenza. Attenzione, però, a relegare la fede in una sfera privata perché questo contribuisce ancora di più all’isolamento delle comunità e non aiuta alla costruzione di una società inclusiva. Da questo punto di vista, ad esempio, la pratica della Santa Sede d’inviare messaggi di auguri alle diverse comunità musulmane o hindu è importante perché in molte parti d’Inghilterra i nostri preti portano questi messaggi nelle varie comunità e ciò favorisce la costruzione di contatti.
La prossima settimana, mercoledì, porterò in udienza privata 4 leader musulmani d’Inghilterra da papa Francesco per dire che i leader religiosi vogliono e sono impegnati a costruire rapporti.
Da dove ricominciare?
Penso che è interessante vedere nel dettaglio quanto è successo lo scorso mercoledì a Westminster. Sono morte 4 persone. È morto l’attentatore. Tutto è avvenuto in 82 secondi dall’inizio alla fine. 82 secondi in cui abbiamo visto il peggio della natura umana, ma abbiamo anche visto il meglio. Non lontano da Westminster bridge, c’è un ospedale e gli infermieri e i dottori di quell’ospedale non hanno avuto paura di recarsi subito sul posto per prestare i primi soccorsi. E anche la risposta delle persone, che si trovavano lì, è stata coraggiosa, positiva. Dobbiamo ricominciare da qui, dal meglio che siamo. Tra i 40 feriti, c’erano persone di 12 differenti nazionalità. È quello che noi siamo nel Regno Unito: diversi. Nella mia diocesi abbiamo 60 differenti comunità etniche.
Ripartiamo da ciò che siamo: persone con un forte senso di generosità e una società multiculturale.
Ci sono, quindi, molti punti di forza da cui ricominciare e sono sicuro che lo faremo. Chiaramente esiste la paura. Ma buone leadership sono quelle che aiutano le persone a trasformare la paura in qualcosa di positivo, non quelle che la manipolano per obiettivi politici.