Armamenti nucleari

A che ora è la fine del mondo?

A New York, in questi ultimi giorni di marzo, si svolge un summit per la messa al bando degli armamenti nucleari. Le armi nucleari nel mondo sono tante: 15 mila testate nucleari, di cui 4.400 pronte all’uso. È stato calcolato che l’esplosione di una decina di queste provocherebbe la morte di due miliardi di persone. Quante decine ci stanno in 15 mila? Questo di New York non è che il primo degli incontri programmati. Un secondo sarà a fine giugno: la questione è seria. Nessuno vuole un olocausto nucleare, eppure la corsa mortale continua

È il ritornello di una canzone in cui un inconsapevole Ligabue cantava una verità che si è fatta oggi pressante. Il tempo a disposizione si è ridotto. E qui serve una spiegazione.
Un metodo di calcolo ha messo in relazione il rischio nucleare presente nel pianeta con i minuti che mancano alla – ipotetica – fine del mondo. Più è alto il rischio, meno minuti restano. Un po’ come se il mondo fosse un giorno e la fine venisse rappresentata dalla mezzanotte. Ebbene, l’Onu ha lanciato l’allarme: era dagli anni ’70 che non si scendeva così in basso. E, per quanto questo ci sembri un pericolo assai remoto, il rischio nucleare incombe. I minuti a disposizione si sono ridotti di due terzi: erano sette negli anni ’70, oggi sono due e mezzo.
È per questo che, a New York in questi ultimi giorni di marzo, si svolge un summit per la messa al bando degli armamenti nucleari. Allarme non infondato se negli ultimi 50 anni quelle ipotetiche lancette sono state spostate in avanti 21 volte. E il rischio odierno è tornato ai livelli del 1953.
Le armi nucleari nel mondo sono tante: 15 mila testate nucleari, di cui 4.400 pronte all’uso. È stato calcolato che l’esplosione di una decina di queste provocherebbe la morte di due miliardi di persone. Quante decine ci stanno in 15 mila?
Questo di New York non è che il primo degli incontri programmati. Un secondo sarà a fine giugno: la questione è seria. Nessuno vuole un olocausto nucleare, eppure la corsa mortale continua.
I primi germogli del no al nucleare crebbero sulle macerie della seconda guerra mondiale, quando Hiroshima cominciò a svelare tutta la portata e la durata della tragedia. Ma figlia del secondo conflitto fu anche la guerra fredda che, contemporaneamente, fu un incentivo alla corsa nucleare. Il male paventato. Basti ricordare Giovanni XXIII: il suo appello del ’62, che fermò la crisi di Cuba, e la sua Pacem in terris. Più che una enciclica, un monito costante.
Solo nel 1970 venne ratificato il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Le possedevano cinque nazioni: Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Usa. Le altre, che non le possedevano, si impegnarono a non averne. Ma le cose sono cambiate. Ai possessori si sono aggiunti altri quattro stati: Corea Del Nord, India, Israele, Pakistan. La Russia dispone oggi di 3.600 testate nucleari, gli Usa di 2.130, la Corea del Nord una quindicina, la Cina tra 200 e 900 ed investe ancora, specie da quando il presidente della Corea del Nord, Pyongyang, va accumulando test su test, provocando non pochi allarmi. E non solo tra i vicini di casa. Anche sul fronte India e Pakistan non volano colombe.
In vista dell’appuntamento newyorkese, il parlamento di Strasburgo ha esortato i paesi membri dell’Ue a sostenere la mozione antinucleare. Ma venti nazioni, tra cui l’Italia, si sono opposte. Le ragioni? Possessori o alleati di possessori.
Il cammino è lungo e non tappezzato di buone intenzioni. Lo cominceranno quelli che, agli occhi del mondo, sono illusi. Eppure, il cominciare a discuterne apertamente e ripetutamente è l’indispensabile primo passo.
Anche leggere le parole “una comunità di pace” nel documento finale dalla rinata Europa a 27 infonde speranza. La parola pace traccia una strada precisa. La sola che può ridare minuti all’orologio del mondo. E di noi tutti.

(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)