#Symposium2017

La Chiesa italiana e i giovani: è il tempo di sospendere i giudizi e di ascoltare

La Chiesa italiana e i giovani. Le nuove generazioni sono ancora interessate al messaggio della Chiesa? Lo capiscono? E chi sono e cosa vogliono? Lo abbiamo chiesto ai direttori degli uffici della Cei che intercettano la vita dei giovani nei vari ambiti della loro vita: pastorale giovanile, vocazioni, scuola ed università. Hanno fatto parte, dal 28 al 31 marzo, della delegazione italiana al Simposio europeo del Ccee sull’accompagnamento dei giovani

“Dobbiamo capire dove siamo noi adulti, educatori, responsabili di comunità. Perché la domanda sui giovani ci rimbalza, ci viene addosso . Non sono in questione i giovani, siamo noi che abbiamo perso il contatto con loro. La conseguenza è mettersi in ascolto”. La Chiesa italiana e i giovani. Si parte da qui. È don Michele Falabretti, responsabile del Servizi nazionale per la pastorale giovanile della Cei, a fare il punto a fine lavori sulla situazione dell’accompagnamento pastorale dei giovani in Italia. Siamo a Barcellona, nella città della Rambla e di Gaudì. Si conclude oggi il Simposio europeo promosso dal Ccee, al quale hanno partecipato 275 delegati di 37 Conferenze episcopali d’Europa. La delegazione italiana è numerosa. Ci sono i responsabili di tutti gli Uffici Cei che intercettano la vita dei giovani: catechesi, scuola, università, pastorale giovanile e vocazionale. La prospettiva è il Sinodo dei vescovi che papa Francesco ha voluto dedicare alle nuove generazioni. “Il Sinodo ci offre la possibilità di fermarci e porci delle domande”, dice Falabretti: “E la domanda non è che cosa facciamo noi, ma è dove sono i giovani, cosa ci chiedono, cosa sognano, come vivono, come si costruiscono”.

Il rischio più comune è quello di voler sentire dai giovani “quello che vogliamo sentire noi. A volte – osserva Falabretti – si ha quasi l’impressione che non crediamo abbastanza alle domande serie e profonde che i giovani si pongono”. A Barcellona, i delegati europei si sono confrontati per quattro giorni sulle sfide dell’accompagnamento. “Come dovrebbe essere l’accompagnamento? Non lo so”, risponde Falabretti: “Lo dobbiamo capire. Sicuramente bisogna imparare a sospendere un giudizio, ascoltare, provare a capire. Noi non vogliamo convertire i giovani. A loro vogliamo bene. Non credo che il Papa voglia o sia preoccupato di riportare i giovani in Chiesa. Credo piuttosto che abbia a cuore il loro futuro”.

Monsignor Domenico Dal Molin è direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Cei. La situazione – sul fronte delle vocazioni – si è stabilizzata dopo la grossa emorragia di qualche anno fa. Ma l’Italia è lunga e a questa stabilità contribuisce molto il Sud con una presenza ancora numerosa di giovani nei seminari regionali di Puglia e Sicilia. “C’è una cultura della paura per l’impegno – osserva Dal Molin – che blocca sulla non scelta e si sposa con la paura del per sempre. È quindi importante lavorare a livello motivazionale, alleggerendo il carico che questa paura porta a livello psicologico”. “Il confronto con le Chiese europee – aggiunge Dal Molinaiuta a vedere le luci e le ombre della nostra realtà. A valorizzare quello che di buono stiamo facendo ma anche a capire in quale direzione nuova andare. A livello di Chiesa italiana abbiamo una robusta tradizione che ha radici profonde. Mi pare però che facciamo fatica a vedere le opportunità nuove che nascono in mezzo ai giovani. Non aspettando  che siano loro a venire da noi, ma andando noi là dove loro ci portano”.

I giovani? “Non sono definibili con delle etichette”, risponde Ernesto Diaco, direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Cei. “Sono un mondo vario, plurale, pieno di grandi desideri e voglia di vivere e, soprattutto, alla ricerca di esempi significativi. Sono attenti, vedono tutto e, se trovano persone vere ed autentiche, certamente le ascoltano. Dobbiamo fare anche noi lo stesso con loro: eliminare tanti pregiudizi e grattare sotto le apparenze. Se saremo capaci di farlo, avremo delle belle sorprese”.

Scuola e università sono occasioni preziose di incontro. Spazi di futuro. Luoghi in cui si pongono grandi interrogativi sulla vita, sul futuro. Gli universitari in Italia sono 1 milione e 700mila. Solo a Torino se ne contano 100mila. Mancano nelle università statali spazi dove sia possibile portare avanti un cammino di pastorale universitaria e sono solo 200 i sacerdoti e i religiosi che si dedicano a questo impegno. Don Luca Peyron è uno di loro. È responsabile della pastorale universitaria del Piemonte. Ricorda che “avere 20 anni determina tutta una serie di istanze, bisogni, aspirazioni, paure e speranze che vale la pena intercettare. Essere universitari è una chiave di accesso per arrivare al cuore dei giovani attraverso la loro intelligenza. In fondo l’università è il passaggio della vita in cui i ragazzi diventano giovani adulti. È il tempo in cui la loro vita in qualche modo sarà determinata per sempre”.

Nulla può, dunque, essere dato per scontato. Le ricette non ci sono. Le risposte pre-confezionate non valgono. In fondo – osserva monsignor Oscar Cantoni, vescovo di Como e presidente della Commissione per le vocazioni della Ccee – i giovani alla Chiesa chiedono vicinanza. Avere compagni di viaggio nelle situazioni, spesso non sempre facili, nelle quali vivono. Chiedono speranza ma a partire dai loro problemi, dalle loro attese e dalle loro ferite, senza mai giudicarli.I giovani si attendono molto dalla Chiesa e a questa attesa dobbiamo rispondere con attenzione per mettere a fuoco chi sono, dove stanno andando, di cosa hanno bisogno. Con pazienza lasciando loro il tempo di scoprire quali sono le vie più adatte per farsi aiutare e, soprattutto, con una grande misericordia perché si sentano pienamente accolti e amati”.