Vocazione e prevenzione
“Non c’è un legame tra vocazione e abuso, ma dobbiamo fare il possibile per evitare che si creino equivoci e siano ammessi al seminario o al noviziato persone che non sono idonee per questo”. Intervista a padre Hans Zollner, presidente del Centre for Child protection dell’Università Gregoriana e membro della Pontificia Commissione per la protezione dei minori, sulla prima Conferenza europea su formazione del clero e prevenzione degli abusi sui minori che si è svolta a Firenze il 31 marzo e 1 aprile
Per la prima volta rettori di seminario, vescovi, direttori spirituali, psicologi e psichiatri si sono dati appuntamento a Firenze per parlare di formazione del clero e prevenzione degli abusi. “Un’occasione eccezionale”, dice padre Hans Zollner, presidente del Centre for Child protection dell’Università Gregoriana e membro della Pontificia Commissione per la protezione dei minori, per confrontarsi sulle necessità e su quanto di buono si sta facendo, per incoraggiare un maggior coordinamento e soprattutto per rafforzare un impegno di prevenzione capillare su tutto il territorio italiano. A Firenze, alla conferenza organizzata dall’arcidiocesi in collaborazione con la Facoltà teologica dell’Italia centrale, il Centre for Child Protection della Pontificia Università Gregoriana e il Seminario arcivescovile di Firenze, erano presenti per l’Italia l’arcivescovo di Ravenna, Lorenzo Ghizzoni, il vescovo di Ales Roberto Carboni, mons. Domenico Dal Molin, direttore dell’Ufficio di pastorale vocazione della Cei, e i cardinali Giuseppe Betori di Firenze e Angelo Bagnasco di Genova, presidente della Cei. “Una presenza non indifferente”, commenta padre Zollner. “Un segnale molto forte”.
Quali sono, padre Zollner, i punti deboli e le zone d’ombra?
Si parte dalla preparazione dei giovani alla scelta vocazionale fin dall’inizio, non solo quando arrivano in seminario o in noviziato. Bisogna tenere conto che l’età media dei giovani che oggi entrano nelle nostre strutture si è molto alzata rispetto al passato. Ciò significa che molti di loro hanno già avuto una vita precedente: hanno studiato, hanno lavorato, hanno avuto relazioni, hanno vissuto da soli a volte anche fino a 30/35 anni. Prima tanti dei nostri candidati venivano da famiglie cattoliche ben strutturate, con fratelli e sorelle, e avevano un senso di vita di Chiesa ben radicato. Oggi, in Europa, per una buona parte dei candidati questi riferimenti non valgono: le famiglie di origine sono a volte distrutte, fragili; sempre di più sono figli unici, molto spesso non hanno avuto una formazione religiosa profonda, altri ancora riscoprono la fede dopo anni di allontanamento succeduti alla cresima. Tutto ciò richiede, quindi, una preparazione del terreno.
Cosa succede quando il giovane manifesta una scelta di tipo vocazionale?
Le scelte vocazionali richiedono un discernimento dal punto di vista intellettuale, emotivo, relazionale e spirituale. Una volta che il giovane bussa alla porta del noviziato o del seminario, c’è la selezione propria dei candidati. A Firenze e a Milano, si fa una valutazione seria di personalità, utilizzando anche gli strumenti psicologi che esistono e che sono riconosciuti in tutto il mondo, con interviste. La decisione finale di ammissione non spetta allo psicologo, ma viene presa dal responsabile del noviziato e dal provinciale oppure dal rettore del seminario e del vescovo dopo aver ascoltato e valutato attentamente la voce degli esperti.
Tutto questo per arrivare a delineare quale tipo di maturità o profilo?
La maturità è un concetto ampio e non definito. Ci sono tantissimi fattori che confluiscono su una personalità. E comunque non vogliamo e non possiamo dire che ci siano persone perfette. La perfezione non è un concetto cristiano. Per noi sono più importanti l’attitudine alla crescita e all’impegno continuo, le potenzialità, una sana autostima e autoconoscenza. Ci stanno a cuore soprattutto due prerogative: l’attitudine ad impegnarsi in un cammino di interiorità e di interiorizzazione. Senza una fede profonda e una personalità integrata, che prende dentro tutti gli aspetti emotivi, relazioni e sessuali, la persona non è in grado di andare avanti nel percorso vocazionale con un impegno serio e sostenibile anche nel tempo. La seconda attitudine è la prospettiva a donarsi. La vocazione sacerdotale e religiosa non è qualcosa che deve mirare ad una autosufficienza: ‘Sto bene con me stesso e con il mio Dio’. È una vocazione ad uscire da se stessi, ma per farlo devo prima essermi incontrato. Solo su una base sana e abbastanza matura, la persona può iniziare a seguire quel Signore che chiama e chiede di lasciare tutto. Anche le sicurezze che ci siamo creati all’interno della Chiesa, le aspettative di ruolo e di potere, le possibili chiusure.
Che legame può esserci, se c’è, tra scelta vocazionale e predisposizione all’abuso?
Non c’è un legame tra vocazione e abuso, ma dobbiamo fare il possibile per evitare che si creino equivoci e siano ammesse al seminario o al noviziato persone che non sono idonee per questo. Molto spesso si sente dire che il celibato provoca un comportamento abusivo. Non è così e lo confermano anche studiosi della materia. Tra l’altro, la stragrande maggioranza dei casi di abuso viene commessa da non celibi. Detto questo, bisogna anche dire che un celibato mal vissuto è un fattore di rischio ed è per questo che è fondamentale puntare sulla formazione iniziale, cioè verificare che le persone non idonee non vengano ammesse. Poi durante il seminario e la formazione religiosa, i candidati devono essere accompagnati e istruiti. Infine – ma questo è un compito dei vescovi e dei formatori – occorre garantire una formazione continua dei giovani sacerdoti.