Sanità e bioetica
In meno di un anno due richiami all’Italia per una presunta difficoltà di abortire imputata alla scarsità di medici non obiettori e un concorso bandito in un grande ospedale romano per l’assunzione di due ginecologi non obiettori. Storia dell’obiezione di coscienza: un diritto costituzionalmente garantito, declinato anche in ambito sanitario e come tale recepito nel Codice di deontologia medica e regolato dalla legge, ma costantemente sotto attacco
Lo scorso 28 marzo il richiamo all’Italia da parte del Comitato dei diritti umani dell’Onu sulla presunta difficoltà di abortire nel nostro Paese dovuta alla scarsità di medici non obiettori. A fine febbraio il concorso bandito dall’ospedale romano San Camillo per l’assunzione di due ginecologi non obiettori. Ad aprile 2016 la censura dell’Italia da parte del Comitato dei diritti sociali del Consiglio d’Europa a seguito di un reclamo della Cgil che lamentava la stessa criticità sollevata pochi giorni fa dal Comitato Onu. Sono solo tre episodi significativi dei periodici attacchi cui in Italia viene ciclicamente sottoposto il diritto di obiezione di coscienza degli operatori sanitari, da sempre aspramente combattuto, pur essendo l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, declinato in ambito sanitario e recepito nel codice di deontologia medica. Un diritto previsto da ben tre leggi: all’art. 9 della 194/78 (interruzione volontaria di gravidanza); all’art. 16 delle norme in materia di procreazione medicalmente assistita (legge 40/2005); nella legge 413/1993 in materia di obiezione di coscienza alla sperimentazione animale. Un diritto per il quale gli obiettori non debbono subire alcun tipo di discriminazione, afferma una risoluzione del Consiglio d’Europa del 7 ottobre 2010.
I tre episodi appena richiamati chiamano in causa, nello specifico, il diritto all’obiezione di coscienza in materia di aborto, regolato dall’art. 9 della legge 194 del 1978, che ha legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza e che al primo comma recita così: “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione”. Un diritto che tuttavia, precisa il provvedimento, non può essere invocato in caso di “imminente pericolo” di vita per la donna. “L’obiezione di coscienza – si legge infatti nel penultimo comma dello stesso art. 9 – non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”. Dello stesso tema si occupa anche il Codice deontologico della professione medica in un apposito articolo, il 43, in materia di interruzione volontaria di gravidanza, stabilendo che “l’obiezione di coscienza si esprime nell’ambito e nei limiti della legge vigente e non esime il medico dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della donna”.
A seguito del reclamo della Cgil dell’aprile 2016, il Comitato del Consiglio d’Europa ha esaminato i dati della relazione annuale di attuazione della legge 194 depositata in Parlamento dal ministro della Salute il 26 ottobre 2015, contenente i numeri dettagliati del carico di lavoro Asl per Asl (media nazionale di 1,6 interruzioni volontarie di gravidanza a settimana con punte, in una Asl nel Lazio e una in Sicilia, di 9,4 e 9,6 a settimana). Una situazione che, afferma la relazione, esclude l’ipotesi di una “criticità” legata al numero degli obiettori ma imputabile piuttosto ad una cattiva organizzazione a livello locale alla quale le Regioni possono ovviare attraverso l’uso della mobilità. In altri termini, cattiva organizzazione non è sinonimo di negazione dell’aborto. Sulla scorta di questi dati, l’organismo del Consiglio d’Europa, in estrema sintesi, ha di fatto rispedito il reclamo al mittente.
Identica questione è stata risollevata il 28 marzo dal Comitato dei diritti umani dell’Onu, che si è detto “preoccupato per le difficoltà di accesso agli aborti legali” in Italia “a causa dell’alto numero di medici che si rifiutano di praticare interruzioni di gravidanza per motivi di coscienza”. Anche in questo caso, a parlare sono i dati dell’ultima relazione del ministro della Salute (pubblicata il 1° dicembre 2016) sull’attuazione della legge 194, che respinge nuovamente l’equazione obiezione di coscienza-mancata applicazione della legge. Secondo la relazione,
il carico di lavoro dei 1.408 ginecologi non obiettori si attesta sulla media nazionale di 1,6 interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) a settimana,
con un minimo di 0,4 in Valle d’Aosta e una punta di 4,7 in Molise (anche se un’Asl della Puglia tocca la percentuale di 15,8). In 390 (il 59,6%) delle 654 strutture con reparti di ostetricia e ginecologia presenti sul territorio nazionale si effettuano Ivg.
Rispetto al dato delle 96.578 Ivg effettuate nel 2014, il ministero definisce “congruo” il numero degli obiettori e “più che adeguato” il numero dei punti Ivg.
Da ridimensionare, inoltre il “peso” del Comitato Onu, costituito da diciotto “esperti di diritti umani” generalisti e indipendenti (sei dei quali europei), assolutamente non equiparabile a quello del Comitato CdE. I titoli ad effetto e l’enfasi riservata dalla stampa alla notizia farebbero piuttosto pensare a un’operazione mediatica.
Tra i due episodi, il concorso bandito dalla Regione Lazio per l’assunzione di due ginecologi non obiettori da assegnare al servizio di interruzione volontaria di gravidanza, ritenuto da diversi medici e giuristi in netto contrasto con il diritto costituzionale alla libertà di coscienza e con le norme a tutela dell’azione contenute nella stessa 194. Un concorso discriminatorio per chi esercita
un diritto ispirato al rispetto della vita del nascituro,
che rimanda a una dimensione normativa appartenente ad un ordinamento di valori superiore e più cogente del disposto squisitamente giuridico.