Liturgia
Monsignor Maurizio Barba, liturgista, spiega la centralità dei riti della Settimana Santa per la vita della comunità cristiana: “Assistiamo a un lento e progressivo processo di sgretolamento della vita umana, che arriva fino a rendere disumano ciò che di umano resta”
La Pasqua è la festa più antica dell’anno liturgico e la domenica è la Pasqua della settimana, che scandisce il tempo della vita cristiana. Parte da qui monsignor Maurizio Barba, docente di liturgia al Pontificio istituto liturgico del Pontificio ateneo Sant’Anselmo, che traccia per il Sir un affresco dei riti della Settimana Santa e della loro centralità nella vita dei credenti. “Tutto parte e tutto porta alla Pasqua”, spiega l’esperto: la liturgia è vita, e la vita è il banco di prova delle nostre liturgie.
Nei primi secoli della vita della Chiesa la Pasqua era, per così dire, “il tutto”, la festa cristiana per eccellenza. Quale itinerario delineano oggi i riti liturgici della Settimana Santa?
Fino a tutto il terzo secolo, nella storia della Chiesa, la Pasqua era l’unica festa annuale della comunità cristiana. Da qui la sua pregnanza teologica: la celebrazione liturgica più importante per i cristiani è quella in cui si fa memoria della Passione, della Morte e della Risurrezione di Cristo, che è evangelicamente il centro della nostra fede: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”, scrive san Paolo. Questo significa che non soltanto la Pasqua, ma ogni celebrazione ha al centro il mistero onnicomprensivo della vita di Cristo e rimanda al progetto salvifico del Padre, che ha salvato l’umanità mandando suo figlio a compiere questo progetto. Poiché l’evangelizzazione è centrale nella nostra vita di fede, la Pasqua e tutti i riti della Settimana Santa sono l’evento centrale dell’anno liturgico.
Tutto parte e tutto porta alla Pasqua, che è celebrazione lungo tutto l’anno liturgico: attraverso i riti del Triduo Pasquale – il Venerdì Santo, il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua – la Chiesa rivive l’evento centrale della nostra fede.
Nelle omelie per il Giovedì Santo, Papa Francesco non perde occasione per parlare dell’unzione sacerdotale come un “olio” che deve spargersi fino alle periferie, per fuggire la tentazione della “mondanità”…
Francesco, in linea con i suoi predecessori, si sofferma sull’identità del sacerdote, che rimane sempre quella. Ciò che a me sembra, però, originale e significativo per il tempo che stiamo vivendo è che il Papa voglia far acquisire maggiore consapevolezza del rapporto tra il ministero sacerdotale e la vita. Questa è la liturgia: non è soltanto cerimonia, è invito salvifico di Dio che si rende visibile attraverso i riti, la celebrazione, e che si spinge fino alla vita dell’uomo. La liturgia è l’atto con cui viene santificato l’uomo. Ma questo è solo il primo passo: quando Dio raggiunge la mia vita, non la tocca e basta, la tocca e la resuscita, perché diventi culto gradito a Dio.
La vita è il banco di prova più autentico ed efficace delle nostre celebrazioni: se manca il risvolto operativo, le liturgie sono soltanto cerimonie sterili.
Papa Francesco è in linea con la tradizione della Chiesa e con le catechesi mistagogiche dei padri della Chiesa, per cui il rapporto tra celebrazione e vita è decisivo per la comprensione anche della celebrazione liturgica. Il rito è un elemento che fa parte della celebrazione, ma non la méta ultima della celebrazione: è un mezzo che ci aiuta a raggiungere l’obiettivo della conformazione a Cristo. Quando il rito è fine a se stesso, diventa invece cerimonialismo, ritualismo sterile.
La Via Crucis è un rito molto sentito nelle nostre Chiese locali: quanto c’è di “devozionismo”, e quanto di condivisione del valore redentivo della sofferenza, in un mondo che tende a rimuovere questa dimensione della vita?
Fin dal Medioevo, i riti della Settimana Santa sono stati da stimolo alla pietà popolare, in tempi in cui nessuno riusciva a comprendere il latino. Col tempo, si sono venuti a creare due binari paralleli: la liturgia e la pietà popolare, che invece devono camminare insieme. La Via Crucis, in particolare, ci fa riflettere sul valore redentivo della sofferenza, in un contesto in cui si sta attuando un processo quasi anestetico delle coscienze, che tende ad allontanare, occultare e rimuovere la sofferenza e la morte. Nel contesto socio-culturale odierno, che è fondamentalmente attento alla produttività,
assistiamo a un lento e progressivo processo di sgretolamento della vita umana, che arriva fino a rendere disumano ciò che di umano resta.
Siamo in preda quasi a una schizofrenia: da una parte, la cultura della produttività tende ad occultare la morte, la sofferenza e i loro segni, dall’altra mette in atto una
spettacolarizzazione mediatica della sofferenza e della morte in tutta la loro crudezza e realismo, perché fa audience.
È la contraddizione interna della nostra società. Il cristiano, invece, sa che la sofferenza e la morte sono segni profetici, che si riempiono di senso proprio grazie al mistero pasquale di Cristo.
Quando la sofferenza e la morte sono chiuse in se stesse, portano alla disperazione, ma se sono aperte ad un orizzonte di vita aprono alla speranza.
E l’orizzonte è la vita eterna, quella vita inaugurata dal Crocifisso Risorto, che non a caso risorge con il suo stesso corpo, glorioso e, nello stesso tempo, segnato dalla sofferenza.