Dopo Pomezia
Venerdì 5 maggio nella società di stoccaggio Eco X è scoppiato un incendio. I dati diffusi dall’Arpa Lazio mostrano un aumento rilevante della diossina, ben oltre i limiti indicati dall’Oms. Intanto, a Roma è acceso lo scontro politico per la spazzatura che invade la capitale
Rifiuti, roghi, territori a rischio… Venerdì 5 maggio è scoppiato un incendio all’interno della società di stoccaggio rifiuti Eco X, a Pomezia, per cause ancora da accertare. Un dato è purtroppo sicuro: il 5 e il 6 maggio nelle immediate vicinanze dell’incendio sono stati rilevati valori “estremamente più elevati” di diossina, oltre 700 volte la soglia di rischio per la salute, come rivela una nota dell’Arpa Lazio. Il giorno in cui è divampato il rogo le rilevazioni indicavano una percentuale di concentrazione di diossine e furani di 77,5 picogrammi per metro cubo, a fronte del limite di 0,1 picogrammi per metro cubo indicato dall’Oms. Un mese prima, il 5 aprile, c’era stato un incendio a un deposito di rifiuti, la Cmt di la Loggia, a Torino. Accese sono anche le polemiche sulla gestione dei rifiuti a Roma, ormai invasa dalla spazzatura, con tanto di critiche persino dal New York Times. Ad Andrea Masullo, direttore scientifico di Greenaccord, abbiamo chiesto un parere sulla situazione ambientale legata ai rifiuti.
La questione dei rifiuti è un problema che tocca direttamente i nostri territori…
La soluzione è evidente: la Commissione europea ha approvato un pacchetto per l’economia circolare, che prevede un’inversione culturale nel modo di gestire i materiali, che dovrebbe impegnare tutte le filiere e tutti i territori. Nella filosofia che l’Ue sta dettando ormai da anni, sono sempre più restrittive le regole per la gestione dei materiali post-consumo.
Si passa dall’economia del danno all’economia del benessere e della valorizzazione.
Nella prima un oggetto si trasforma in un rifiuto, quando il suo detentore se ne vuole disfare. Questo tipo di economia produce profitti per chiunque gestisce impianti – che siano discariche, inceneritori, piattaforme di diverso genere di trattamento –, ma si basa su un’ottica distruttiva: una materia prima viene utilizzata per realizzare un prodotto, che rapidamente non serve più e, quindi, viene smaltito. Nel ciclo di smaltimento, materiali innocui possono trasformarsi in tossici, come è avvenuto nell’incidente accidentale di Pomezia: la plastica non ammazza nessuno, la diossina sì. Con l’economia circolare l’oggetto di cui vogliamo disfarci attraverso il riciclo diventa una materia seconda. C’è un passaggio culturale che non si riesce a fare da anni.
Cosa possono fare cittadini e associazioni ambientaliste per difendere i territori dagli effetti nocivi di una poco corretta gestione dei rifiuti?
I cittadini e le associazioni ambientaliste hanno maturato già da anni iniziative, anche capillari, di coordinamento, attraverso le quali spingere le municipalità verso forme di raccolta propedeutiche a una gestione di riciclo. Queste attività hanno più successo nelle municipalità più piccole. In realtà, siamo bravissimi nella raccolta differenziata, porta a porta, soprattutto nei piccoli centri, ma anche in qualche grande città, mentre abbiamo ancora un’industria molto forte che trova più conveniente lo smaltimento, anche grazie al sostegno ricevuto dalle leggi. Manca qualcosa sul fronte della prevenzione dei rifiuti. Su dove va a finire il materiale per il riutilizzo le associazioni dovrebbero battersi perché bisogna aiutare e sostenere l’industria che fa questa attività. Infatti, c’è un’industria che punta a produrre innovazione riguardo al riutilizzo e al riciclo, ma non è abbastanza. Le piattaforme di trasferimento dei rifiuti dovrebbero ospitarli per un tempo breve e avere sempre spazio libero per ciò che entra e ciò che esce. Invece spesso, proprio per la mancanza della seconda parte della filiera, volta al riciclo, diventano impianti che accumulano più del dovuto, magari accogliendo per interesse economico anche materiali per i quali non si è autorizzati. Insomma, le catastrofi nascono dal troppo materiale accumulato e dalla mancanza di sistemi di sicurezza adeguati.
Nel caso di Pomezia c’è l’allarme per la diossina…
Purtroppo la diossina non è biodegradabile, non è idrosolubile, ma si accumula nelle parti grasse degli organismi. Per rompere questa molecola e renderla non pericolosa servono trattamenti ad alta temperatura in impianti speciali. E quando è dispersa, non è facile da raccogliere: abbiamo l’esempio Seveso che ha fatto scuola a livello mondiale.
È pericolosa anche in quantità infinitesimali.
L’allarme sui prodotti agroalimentari è reale?
Per adesso dobbiamo parlare di attenzione. Auguriamoci che le condizioni meteorologiche del 5 maggio fossero sfavorevoli a una diffusione su lunga distanza. Queste sono molecole pesanti: se non c’è il vento ricadono nel raggio di pochi chilometri dal punto di emissione. Se l’area a rischio è limitata, si può procedere a una rimozione di uno strato superficiale abbastanza ridotto, da fare in fretta, prima che la diossina vada in profondità per percolazione. Con queste molecole non si arriva mai alla rimozione totale, ma l’importante è ritornare sotto i limiti di sicurezza.
I territori hanno capito l’importanza del legame tra rifiuti, ambiente e salute?
Purtroppo sono temi su cui si accende lo scontro politico, mentre su certe questioni come liberare Roma dai rifiuti bisognerebbe porsi tutti – chi amministra e chi sta all’opposizione – in un dialogo costruttivo per trovare una soluzione. Nella questione dei rifiuti, come per il petrolio, ci sono molti interessi in gioco, come i tanti investimenti per lo smaltimento, ma è tempo di cambiare. Tocca alle amministrazioni locali decidere quali impianti sviluppare nel proprio territorio in base alla scelta tecnica che adottano: economia dello smaltimento, che la Commissione europea vuol superare, o economia circolare? O un bilanciamento dei due aspetti in una fase di transizione? Questi sono i ragionamenti da farsi, senza litigare, perché riguardano la salute dei cittadini.