Visita pastorale
Sono stati i bambini, con i loro disegni, a “portare” il Papa all’Istituto Gaslini. Lo rivela il direttore, Pietro Pongiglione, con cui percorriamo in anteprima uno dei momenti più intensi del viaggio di Papa Francesco a Genova, il 27 maggio.
“Tutti i Papi che sono passati da Genova sono sempre andati a visitare il Gaslini”. Comincia da qui Pietro Pongiglione, direttore dell’Istituto Gaslini, per raccontare con orgoglio al Sir una tradizione che si rinnova, tramite uno dei momenti più intensi del viaggio di Papa Francesco a Genova, il 27 maggio. Tutto è cominciato proprio dai disegni dei piccoli ospiti dell’ospedale, fondato quasi 80 anni fa dal benefattore di cui porta il nome. Motivo della tappa in quello che a Genova è “una città nella città”, la visita strettamente privata nel reparto di terapia intensiva e rianimazione, dove Francesco entrerà da solo per incontrare i bimbi e intrattenersi con i loro genitori.
Il conto alla rovescia per l’arrivo di Papa Francesco è ormai iniziato: qual è il clima che si respira al Gaslini?
C’è un clima di attesa, unito a un po’ di trepidazione perché tutto vada bene, ma soprattutto c’è la voglia di condividere con il Papa un momento breve, ma molto intenso. Il prossimo anno il nostro Istituto, fondato nel 1938, compie 80 anni:
tutti i Papi che sono passati per Genova sono sempre andati a visitare il Gaslini.
Il 27 maggio, quindi, si rinnova una tradizione: un segnale importante che tutto il personale si aspetta, ma in particolare le famiglie dei bambini.
In che modo si articolerà la visita?
Il Papa entrerà nel viale che conduce all’ospedale e, come prima cosa, si recherà nel reparto di terapia intensiva e rianimazione: il reparto più intenso, dove c’è la maggiore sofferenza e difficoltà dei bambini. Sarà un incontro con bambini che non sono in grado di capire più di tanto, perché troppo piccoli o sedati, ma con loro ci saranno i genitori, che vivono un momento di grande preoccupazione. Il Papa ha chiesto espressamente di intrattenersi con i genitori di questi bambini – e questo è il cuore della visita – poi ci sarà anche l’incontro con il personale dell’ospedale. Durante il percorso, nei corridoi e nel piazzale antistante il padiglione Francesco incontrerà i bambini che sono in grado di lasciare il loro letto e la loro stanza.
Sarà un’accoglienza fatta dai bambini, che lo accompagneranno: solo lui, però, entrerà in reparto, per una visita a carattere strettamente privato.
C’è un rapporto speciale tra il Papa e i bambini. Come si sono preparati ad incontrarlo?
Grazie ai 40 insegnanti che lavorano fissi in ospedale per fare scuola ai piccoli ricoverati, i bambini hanno fatto un percorso d’informazione su cos’è il Papa, in tutti i sensi, come capo della Chiesa ma anche come personaggio che vedono in tv. Si tratta di un momento di crescita e di conoscenza vera di Papa Francesco cominciato già da tempo, prima di sapere della sua visita.
Sono stato a Roma a fine anno, ho portato al Papa i disegni fatti dai bambini: gli ha fatto moltissimo piacere. I nostri bambini sono persone innocenti che non percepiscono tantissimo sulla figura del Papa, ma hanno verso di lui un trasporto che va al di là della comprensione e ha a che fare piuttosto con l’empatia.
Anche il Gaslini è un ospedale speciale. La metà dei vostri pazienti proviene da altre regioni e dall’estero, anche da Paesi martoriati dalla guerra. Quali sono le radici di questa tradizione, e come le “aggiornate” per il futuro?
È vero, il Gaslini è l’ospedale di Genova ma pesca molto da fuori città, dalle altre regioni e all’estero. Nei nostri reparti si respira una multiculturalità e una multirazzialità che al Papa piace, perché lui è il Papa di tutti, in particolare dei bambini. Per quanto riguarda le radici del nostro impegno, tutto nasce dal fondatore, che è stato estremamente lungimirante:
ha costruito l’ospedale e poi è andato in giro per il mondo per capire come farlo funzionare nel modo migliore possibile, e così noi abbiamo continuato a fare.
Abbiamo un collaborazione costante e quotidiana con i principali ospedali pediatrici del mondo – in America del Nord, America Latina, Francia, Inghilterra – ma anche con Haiti e Cuba, Paesi poveri dove c’è bisogno di formazione del personale sanitario. È in corso un progetto nei Balcani e ospitiamo anche bambini siriani. Senza contare la rete degli ospedali pediatrici italiani: abbiamo ottimi rapporti, fra gli altri, con il Bambino Gesù di Roma e con il Meier di Firenze.
Una vostra caratteristica peculiare è lo scambio permanente tra attività clinica e di ricerca, anche in campi spesso poco esplorati come le malattie rare. Quanto contano le motivazioni, nelle persone che formano la vostra comunità?
Sono l’elemento principale. Se c’è la competenza tecnico-scientifica, ma non ci sono le motivazioni ad utilizzarla per spirito di missione, o per ispirazione scientifica di alto livello, non si ottiene nulla. Il fatto che il nostro sia un policlinico pediatrico dove ci sono tutte le specialità pediatriche – caso unico in Italia – aiuta, perché confrontarsi con professionisti che conoscono tutte le specificità pediatriche nello stesso momento e nello stesso luogo consente di affrontare al meglio anche le situazioni più complicate, come le malattie rare di cui si sa poco. La presenza della ricerca a fianco del letto dei pazienti, tramite un legame costante e quotidiano, fa in modo inoltre che i tempi terapeutici siano molto più accorciati.