Società
I tre decreti legislativi, che in questi giorni andranno esaminati dalle Commissioni parlamentari, influiranno sicuramente sull’esistente, bisognerà poi verificarne l’incidenza e la direzione. Per capire servirà tempo, perché una legge, senza l’impegno dei cittadini, non avrà la forza di ridurre le disuguaglianze.
Va in porto la nuova legge quadro per la riforma del terzo settore. Il Consiglio dei ministri ha approvato i primi tre decreti legislativi che in questi giorni andranno esaminati dalle Commissioni parlamentari. Tutte le realtà del terzo settore saranno dunque coinvolte tra poco in una forte ristrutturazione.
L’obiettivo del legislatore è circoscrivere lo spazio d’azione delle molteplici e variegate organizzazioni, per renderlo più chiaro ed efficace, attribuendo agli enti il compito di realizzare alcuni principi costituzionali.
Bisognerà verificare se l’innovazione aiuterà a superare gli squilibri esistenti nel mondo del no profit. Nel grafico, tratto dai dati dell’ultimo rilevamento Istat sugli enti no profit, si evidenziano alcune tendenze.
Mentre in proporzione è abbastanza ripartito il numero delle organizzazioni presenti sul territorio nazionale, sebbene sia più presente nel Nord del Paese piuttosto che nel Sud, le risorse economiche e la ripartizione percentuale dei volontari è molto squilibrata. In tutto il Nord Italia le entrate delle istituzioni no profit arrivano al 56%, mentre nel Mezzogiorno (Sud ed Isole) raggiungono il 12% del totale. Simile situazione si riscontra sulla percentuale dei cittadini impegnati nel volontariato: nel Mezzogiorno si arriva al 20% del numero complessivo, contro il 58% del Nord.
Se si vuole concentrare molti compiti di welfare nel terzo settore è importante anche verificare le risorse attuali, altrimenti lo squilibrio territoriale continuerà ad incidere sui livelli di benessere dei cittadini.
Sicuramente i tre decreti influiranno sull’esistente, bisognerà poi verificarne l’incidenza e la direzione.
Il primo descrive il codice del Terzo Settore che delinea le finalità: lo compongono gli enti, senza fine di lucro, che si occupano della costruzione del bene comune, che si impegnano in azioni di solidarietà, che coinvolgono i cittadini per promuovere la partecipazione alla vita sociale. Questi compiti dovranno essere portati avanti con attività gratuite, volontarie e di mutualità.
L’intento è creare un gruppo di soggetti a servizio di specifici principi costituzionali: la solidarietà e l’uguaglianza di opportunità a seguito della rimozione degli ostacoli economici e sociali (artt. 2 e 3), la libertà di associazione (art. 18), la sussidiarietà (art. 118). L’immagine che emergerebbe dalla nuova riforma è quella di un terzo settore che promuove un welfare attivo e di prossimità: quello che dovrebbe rispondere con puntualità alle esigenze particolari di alcuni cittadini e alle carenze di un territorio specifico. Gli enti per essere riconosciuti dovranno iscriversi in un “Registro unico nazionale del terzo settore”. Inoltre tutti dovranno pubblicare su web il loro bilancio sociale per rispondere a una “valutazione di impatto” delle loro azioni. Dall’altra parte, le amministrazioni pubbliche dovranno promuovere nelle varie strutture a partire dalla scuola la “cultura del volontariato”.
Il secondo decreto tende a definire meglio l’impresa sociale che dovrà avere come obiettivi quelli di interesse generale: dalle prestazioni sanitarie alla salvaguardia ambientale, dalla tutela del patrimonio culturale alla ricerca scientifica d’interesse sociale, dal commercio equo e solidale al microcredito, dall’agricoltura sociale alle azioni di dispersione scolastica. L’impresa sociale che potrà avviare iniziative di sistema che coinvolgono aziende private, no profit e pubblica amministrazione. A queste organizzazioni saranno richiesti una gestione trasparente e il coinvolgimento di dipendenti ed utenti. Le realtà del terzo settore proprio su questo decreto chiedono ancora qualche limatura perché considera poco le cooperative sociali e ne limita le prospettive di sviluppo.
Il terzo decreto disciplina il 5 per mille. A tutti gli enti riconosciuti nel “registro unico nazionale” sarà possibile essere accreditati per beneficiare dell’istituto. Ovviamente sono previsti alcuni obblighi da quelli della tracciabilità dei finanziamenti nella rendicontazione dell’utilizzo del contributo percepito, alla pubblicazione degli importi percepiti.
Ci sono ancora altri passi per completare il quadro della riforma. Però dai decreti attuativi si possono trarre alcune indicazioni.
In positivo c’è il forte riconoscimento del ruolo del terzo settore come soggetto fondamentale per il welfare; inoltre c’è il rafforzamento della possibilità di raccogliere i contributi attraverso il 5 per mille; e uno sprone a lanciare l’impresa sociale come attore economico; altro elemento fondamentale sarà lo sviluppo dei centri per il volontariato che potranno incentivare le attività a livello locale. Rimangono poi alcuni dubbi da dover affrontare: da un lato, c’è la difficoltà per le organizzazioni più piccole a soddisfare obblighi amministrativi, fiscali e burocratici che saranno sempre più stringenti, inoltre andrebbe definito meglio il rapporto tra imprese sociali e amministrazioni pubbliche – come hanno rilevato alcuni esponenti del Forum del terzo settore. Dall’altro lato, rimane la domanda iniziale: quanto e con quale efficacia le diverse comunità locali saranno servite dai vari enti?
La riforma chiama il terzo settore a rispondere all’esigenza di welfare sui territori.
Per capire servirà tempo, perché una legge, senza l’impegno dei cittadini, non avrà la forza di ridurre le disuguaglianze.